Auftragstaktik: le ragioni della superiorità tedesca

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a cura di Daniele Baggiani

Premessa

Il testo che segue è una trascrizione integrata e revisionata di un estratto dal libro di Gerhard Muhm, La tattica tedesca nella campagna d’Italia, pubblicato in A. Montemaggi (a cura di), Linea Gotica avamposto dei Balcani, Roma, Edizioni Civitas, 1993. Il testo è stato reso disponibile anche sul sito lineagotica.eu. Sono state apportate correzioni ortografiche e riorganizzati alcuni paragrafi, con integrazioni introduttive riguardanti la figura di Gerhard Muhm e Albert Kesselring, in relazione alla “ritirata aggressiva” attuata dalle forze tedesche in Italia.

Gerhard Muhm, ufficiale della Wehrmacht, partecipò in prima linea alla Campagna d’Italia. Dopo la guerra è stato consulente e istruttore presso vari eserciti alleati. Egli ci spiega i canoni della difesa aggressiva tedesca attuata da Kesselring in Italia

Muhm, decorato per il valore, applicò sul campo la cosiddetta Auftragstaktik (tattica del compito), che permetteva ai comandanti subordinati di prendere decisioni autonome basate sulla situazione reale. Questa flessibilità operativa, che esaltava l’iniziativa individuale, si contrapponeva alla più rigida disciplina degli eserciti anglosassoni, focalizzata sull’esecuzione letterale degli ordini.

Il testo descrive vari episodi di battaglie, contrattacchi e operazioni difensive condotte dalle truppe tedesche durante la ritirata strategica ordinata da Kesselring, il quale perfezionò la tattica della difesa mobile o “ritirata aggressiva”. Kesselring, comandante supremo delle forze tedesche in Italia, sfruttò il terreno montuoso e le limitate risorse disponibili per rallentare l’avanzata delle forze alleate, mantenendo la coesione delle sue truppe nonostante la superiorità numerica e materiale nemica. La Auftragstaktik, che Muhm e molti altri ufficiali applicarono con successo, consentiva alle truppe tedesche di adattarsi rapidamente alle mutevoli condizioni di combattimento, opponendo resistenza anche in condizioni critiche. Questo approccio, che affondava le radici nella tradizione militare prussiana, consentiva una maggiore rapidità di risposta e una gestione più efficiente delle truppe durante situazioni di crisi.

L’importanza di questo testo risiede nel suo resoconto dettagliato delle operazioni condotte dalle forze tedesche lungo la penisola italiana. Da Roma alla Linea Gotica, le battaglie furono combattute con estrema ferocia, mettendo alla prova la resistenza delle forze alleate della 5ª Armata americana e dell’8ª Armata britannica. Muhm offre un quadro vivido di come la tenacia e l’addestramento delle truppe tedesche influirono sulla durata della campagna d’Italia, rendendo l’avanzata alleata estremamente costosa in termini di tempo e perdite umane.

In definitiva, questo documento è una preziosa testimonianza del tipo di combattimenti che si svolsero in Italia e della capacità delle forze tedesche di rallentare, e in alcuni casi fermare, l’avanzata degli Alleati attraverso una tattica basata sulla flessibilità, che dava al soldato tedesco autonomia decisionale rendendolo adattabile e abile perciò nello sfruttare al massimo le risorse a sua disposizione.

Gerhard Muhm

Gerhard Muhm fu un brillante ufficiale della Wehrmacht e un testimone diretto degli scontri della Campagna d’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Nato nel gennaio del 1924, Muhm rappresenta un esempio tipico dell’eccellente addestramento militare tedesco di quei tempi. Durante il conflitto, si distinse per il suo coraggio, ottenendo ben quattro decorazioni al valore.

Gerhard Muhm, ufficiale della Wehrmaht

Nel dopoguerra, Muhm si affermò come uno degli ufficiali tedeschi più influenti nel campo della strategia militare. Fu il primo ufficiale tedesco ad essere ammesso alla Scuola di Guerra Italiana di Civitavecchia, una rarità per l’epoca. In seguito, ricoprì importanti ruoli all’interno della NATO sia in Italia sia in Germania. Dopo aver concluso la sua carriera militare attiva, si dedicò all’insegnamento di Storia Militare, con particolare attenzione alla Campagna d’Italia, alla Scuola di Guerra Canadese. Inoltre, fu consulente storico-militare per il Defense Mapping School of Intelligence (DMSI), con sede a Fairfax, negli Stati Uniti, dove contribuì con ricerche strategiche e operative.

Il percorso formativo e militare

Gerhard Muhm si arruolò volontario nella Wehrmacht nel luglio 1942, a soli 18 anni, richiedendo di essere assegnato alla fanteria motorizzata. Fu destinato al 151. Infanterie-Regiment di Kassel, che, dopo la sconfitta di Stalingrado, venne trasformato nel Panzergrenadier-Regiment. Fu promosso ufficiale il 28 novembre 1943 a Breslavia (Breslau), in una cerimonia a cui partecipò anche Adolf Hitler. L’addestramento di Muhm fu intenso e altamente specializzato, seguendo il modello tedesco che alternava periodi di formazione teorica con periodi pratici sul campo di battaglia. Egli completò la sua preparazione militare nelle seguenti fasi:

  • Luglio 1942 – Aprile 1943: Frequentò l’Accademia Militare a Budweis (oggi České Budějovice, Repubblica Ceca), con formazione come comandante di squadra.
  • Settembre – Novembre 1943: Frequentò la Schule für Panzergrenadiere  (Scuola per Granatieri Corazzati) a Königsbrücknei, nei pressi di Dresda, specializzandosi come comandante di plotone.
  • Febbraio – Marzo 1944: Partecipò a un corso per comandanti di compagnia presso la Scuola delle Truppe Corazzate a Kramnitz, nei dintorni di Potsdam (vedi sotto due immagini).

Durante questi periodi, Muhm ricevette una preparazione completa nelle tattiche militari, a livello di battaglione e reggimento, che si rivelò essenziale per la sua carriera operativa. A partire da maggio 1943, ricoprì il ruolo di comandante di squadra nella 5. Kompanie del suo reggimento, per poi passare a comandante di plotone nel 1. Bataillon.

L’esperienza nella Campagna d’Italia

La vera prova del suo addestramento si ebbe durante la Campagna d’Italia. Dal 21 maggio 1944 fino alla sua cattura il 18 aprile 1945, Muhm partecipò a tutte le principali operazioni della 29. Panzergrenadier-Division. In particolare, fu coinvolto nel contrattacco presso Amaseno e Monte delle Fate durante la controffensiva tedesca tra Terracina e Vallecorsa. Fu qui che si distinse come comandante della 1. Kompanie, 1. Bataillon, 15. Panzergrenadier-Regiment, conducendo i suoi uomini in battaglia con grande determinazione, fino al momento della sua cattura da parte delle truppe britanniche a nord di Argenta.

Muhm è ricordato per il suo rigore e la sua adesione alla Auftragstaktik, la “tattica del compito”, che permetteva agli ufficiali tedeschi di agire con una certa autonomia operativa, adattando i piani di battaglia alle condizioni sul campo. Questa dottrina si rivelò particolarmente efficace durante la Campagna d’Italia, dove le forze tedesche, pur in svantaggio numerico e strategico, riuscirono a resistere agli alleati grazie alla loro capacità di adattamento e iniziativa.

Bibliografia di approfondimento:

  1. Gerhard Muhm, Geschichte der 1. Kompanie, Panzergrenadier-Regiment 15 (1945-46).
  2. Gerhard Muhm, La tattica tedesca nella Campagna d’Italia, in Amedeo Montemaggi (a cura di), Linea Gotica, avamposto dei Balcani, Roma, Edizioni Civitas, 1993.
  3. Albert Kesselring, Soldat bis zum letzten Tag, Bonn, 1954.
  4. Gordon A. Craig, Die Preussische-deutsche Armee 1640-1945, Dresden, 1980.
  5. Mario Puddu, Tra due invasioni. La campagna d’Italia, 1943-45, Roma, 1965.
  6. Kurt von Tippelskirch, Geschichte des Zweiten Weltkrieges, Bonn, 1951.

La Auftragstaktik o tattica del compito

La concezione tattica seguita dall’esercito tedesco era la “Tattica dell’incarico o compito” (Auftragstaktik) in antitesi alla “Tattica dell’ordine” (Befehlstaktik) in uso presso altri eserciti. La differenza di concezione e di esecuzione fra queste due tattiche è fondamentale: la prima esalta l’intelligenza e le capacità del soldato, la seconda tende a mortificarlo, rendendolo un passivo esecutore di ordini altrui. Con la Auftragstaktik si ordina una missione e si lascia all’esecutore libertà di esecuzione del compito affidatogli, per cui egli si sente responsabile delle azioni che gli dettano la sua intelligenza, la sua intraprendenza e le sue capacità. Con la Befehlstaktik, invece, l’esecutore deve adempiere a un ordine impartitogli da altri, nel modo ordinatogli da altri, senza che egli possa ricorrere al suo senso di iniziativa e alla sua destrezza, sia nell’adeguarsi sia nello sfruttare le varie situazioni. Quest’ultima concezione è naturalmente più facile da seguire, basandosi sulla pura disciplina mentre per adottare la Auftragstaktik occorre che gli ufficiali, i sottufficiali e i soldati vengano addestrati nelle scuole militari con continue esercitazioni.

Un momento di formazione degli ufficiali

Il generale von Gneisenau, Capo di Stato Maggiore dell’esercito prussiano e già collaboratore del generale Scharnhorst, introdusse nel 1813 una nuova tecnica di comando, applicata anche dagli altri eserciti tedeschi dell’epoca. Tale tecnica era contrassegnata dal fatto che l'”intenzione” veniva formulata in modo trasparente e comprensibile, lasciando sempre spazio all’iniziativa personale e alla libertà di azione. Il maresciallo von Moltke, nelle sue concise ma classiche direttive alle Armate nelle campagne di guerra del 1866 contro l’Austria e del 1870 contro la Francia, aveva affermato sia per conoscenza che per esperienza come l’applicazione pratica di questa tattica (Auftragstaktik) necessitasse di uno straordinario e preciso addestramento di tutti i comandanti a ogni livello. Da allora nell’esercito tedesco viene praticato questo tipo di addestramento per insegnare:

  • un criterio unificato di giudizio nel valutare le situazioni e nel prendere le conseguenti decisioni;
  • l’astensione da ogni rigido schematismo e l’indipendenza di pensiero e di azione nel condurre il combattimento.

In questo modo, l’autonomia nello svolgere il compito ricevuto, unita all’addestramento su come portarla avanti, è diventata una caratteristica speciale e un punto di forza dell’esercito germanico. Un comandante, nel dirigere un combattimento, oltre che dimostrarsi coraggioso, era anche in grado di riconoscere per tempo una situazione favorevole e sfruttarla: cosa che in guerra non sempre viene fatta. Scrive von Senger und Etterlin: “I compiti operativi costringevano i comandanti a decisioni più o meno autonome. Nelle esercitazioni, gli ufficiali imparavano ad agire di loro iniziativa e ad ambire le responsabilità […] Questo metodo si limitava a dare soltanto le direttive più indispensabili per l’esecuzione di un determinato incarico, per cui il comandante incaricato poteva, entro certi limiti, scegliere liberamente i mezzi e le tattiche che più gli convenivano”.

Nella Campagna d’Italia, l’esempio più alto di Auftragstaktik è rappresentato dalle disposizioni emanate dal Feldmaresciallo Kesselring il 7 giugno 1944 per la ritirata a nord di Roma. Delle due Armate tedesche, la 14ª era stata duramente provata dalla lotta, mentre la 10ª, che aveva combattuto sul fronte di Cassino, si trovava sbilanciata troppo in avanti, sia nell’Appennino Centrale sia sulla costa adriatica. Per riorganizzare la 14ª A. e far arretrare in salvo la 10ª A., Kesselring diede questa Auftragstaktik, estesa sino al livello di Divisione: “ritirarsi combattendo, immettere sulla linea di combattimento dal retro e dai fianchi le riserve già in marcia verso sud, chiudere gli spazi aperti fra le varie unità, stringere saldamente i fianchi interni delle unità stesse […] questa fase, però, non dovrà continuare fino alla Linea degli Appennini (Gotica) ma, dopo il riordinamento delle Grandi Unità in crisi, bisogna fermarsi e attestarsi sulle posizioni difensive, più a sud possibile”, cosa che avvenne sulla Linea Albert (Lago Trasimeno).

Uno degli esempi, per contro, della differenza tra la tattica tedesca e la Befehlstaktik è dato dal fallito sbarco alleato ad Anzio nel gennaio 1944. Il Gen. Lucas (Comandante del corpo di spedizione), sbarcando, si attenne agli ordini ricevuti di difendersi per evitare un’altra Salerno, piuttosto che puntare su Roma. Se egli fosse stato un Generale tedesco, attenendosi alla Auftragstaktik e sfruttando gli enormi vantaggi tattici e strategici fornitigli dalla sorpresa, dalla mancanza di difese sulla via di Roma e dalla assoluta superiorità di uomini e di mezzi, avrebbe conquistato la città eterna e colpito alle spalle l’intero schieramento difensivo tedesco di Cassino.

La testimonianza di Rudolph Muhn: la sua analisi della Campagna d’Italia

Da Valmontone all’Arno

Nella campagna d’Italia Kesselring applicò magistralmente le prescrizioni della Auftragstaktik, scegliendo con oculatezza i “punti di forza” (Schwerpunkt) ove concentrare le sue forze in corrispondenza dei “punti di debolezza” del nemico, quei settori cioè quasi vuoti di truppe o con forze deboli impossibilitate a intervenire in tempo. Potrei esaminare due esempi classici di Schwerpunkt in Italia:

  1. la difesa e chiusura dello spazio vuoto fra la 10ª e la 14ª Armata tedesca nella ritirata da Roma fino al Monte Amiata;
  2. la battaglia di Rimini con la concentrazione di 10 divisioni in un unico settore di Corpo d’Armata.

Il mancato intrappolamento delle truppe tedesche a Valmontone, a sud di Roma, è un argomento su cui non si finirà mai di discutere. Il punto di vista tedesco è quello di von Tippelskirch, che comandò la 14. Armee (14ª Armata) dal dicembre ’44 al febbraio ’45. “La nostra situazione più pericolosa avvenne a fine maggio dopo la rottura del fronte fra Velletri e Cisterna in direzione di Valmontone. In questo momento decisivo lo stato maggiore americano commise un errore dalle notevoli conseguenze: invece di concentrare tutte le forze in un unico punto, ossia nella valle verso Artena/Valmontone, dove c’erano solo i resti delle divisioni di Anzio/Nettuno, esso insistette nel rafforzamento dei fianchi. Prima che lo sfondamento americano fosse portato a termine, arrivarono sul luogo le nostre divisioni Fallschirm-Panzer-Division 1 Hermann Göring e 29. Panzergrenadier-Division. Con queste forze la 14. Armee fu in grado, anche con una serie di contrattacchi, di impedire sino al 30 maggio lo sfondamento decisivo verso Valmontone”.

Nella notte fra il 30 e il 31 maggio, le truppe americane, con quattro divisioni contro la sola 29. Panzergrenadier-Division, riuscirono finalmente a determinare la rottura del fronte e a prendere Valmontone il primo giugno. In tutti i libri finora scritti su questo argomento, le cose non sono state raccontate così come si svolsero. Posso testimoniare che nessuno ha rilevato come la 29. Panzergrenadier-Division sia stata coinvolta pesantemente in questa battaglia e che fu proprio lei a difendere fino all’ultimo il settore di Valmontone dal 25 maggio al 2 giugno, nel settore da Velletri (esclusa) ad Anagni (inclusa).

Nessuno di noi – e nemmeno, credo, i nostri comandanti di divisione – aveva un’idea esatta delle enormi forze alleate che ci stavano di fronte. Solo molto tempo dopo la fine della guerra ci siamo resi conto che la 29. Panzergrenadier-Division aveva combattuto contro due interi Corpi d’Armata: il II Corps americano e il Corps Expéditionnaire Français (FEC). Sulla Linea Hitler, dal 21 al 25 maggio, il mio reggimento, il 15. Panzergrenadier-Regiment, combatté da solo contro sei reggimenti americani delle divisioni 85th Infantry Division e 88th Infantry Division, mentre l’altro nostro reggimento, il 71. Panzergrenadier-Regiment, affrontava le truppe coloniali francesi. Più tardi, sul fronte di Valmontone, dal 25 maggio al 2 giugno, la nostra divisione combatté contro tre divisioni americane, la 3rd Infantry Division, la 85th Infantry Division e la 88th Infantry Division, oltre a due divisioni francesi: la 2e Division d’Infanterie Marocaine e la 3e Division d’Infanterie Algérienne. “Perché non avanzano? Perché sono così lenti?”, ci chiedevamo. Sarebbe troppo lungo riepilogare il nostro coinvolgimento nella lotta, in cui intervenimmo troppo tardi, quando la situazione era ormai divenuta irreversibile. In riserva nella zona di Bracciano, fummo allertati solo il 19 maggio, quando non era più possibile fermare la falla aperta dai francesi e allargata dagli americani.

Il 22 maggio, la mia compagnia conquistò il Monte delle Fate, a nord di Terracina, catturando alcuni ufficiali e circa trenta soldati americani che avevano stabilito un posto di osservazione. Dopo aver respinto alcuni contrattacchi, ci ritirammo per evitare l’accerchiamento e, muovendoci di notte, ci infilammo tra le linee nemiche ad Amaseno, riunendoci poi con i nostri a Prossedi. Da lì, fummo inviati nella zona di Velletri, dove la Fallschirm-Panzer-Division 1 Hermann Göring difendeva dagli attacchi provenienti dalla testa di ponte di Anzio. Il nostro battaglione, I/15, fu temporaneamente assegnato alla divisione “Hermann Göring” per contribuire alla difesa del settore, mentre il resto della 29. Panzergrenadier-Division fronteggiava gli attacchi francesi e americani a sud.

Nella notte del 27 maggio, ci spostammo verso il fronte di Artena-Valmontone, ritornando sotto il comando della nostra divisione. La mia compagnia era incaricata della difesa di un settore lungo 500 metri, mentre l’intero fronte del battaglione I/15 si estendeva su 2,5 chilometri, da difendere contro tre reggimenti nemici. Nonostante la pressione, gli americani non riuscirono a sfondare, forse per la loro insistenza nell’attaccare frontalmente. Il 29 maggio, i combattimenti si spostarono a sud, verso Gorga, dove il comando schierò tre battaglioni: il nostro, il III/15, e il III/8 della 3. Panzergrenadier-Division. Questa mossa lasciò il fronte di Artena-Valmontone quasi scoperto, protetto solo dai resti di due battaglioni del Grenadier-Regiment 1060 della 362. Infanterie-Division. Non mi è mai stato chiaro il perché di questa decisione da parte del nostro comando, né perché gli americani non ne abbiano approfittato. A Gorga, contrattaccammo le forze marocchine, per poi ripiegare verso Colleferro e Valmontone, dove la battaglia continuò fino al 2 giugno. Infine, ci ritirammo verso Subiaco e Tivoli.

Per la battaglia di Roma/Valmontone, gli alleati avevano concentrato forze enormi: sette divisioni americane, due divisioni britanniche e quattro divisioni coloniali francesi, per un totale di tredici divisioni. Personalmente ritengo che sarebbero bastate solo due o tre divisioni per occupare Roma. Le restanti dieci o undici divisioni avrebbero potuto attaccare con tutte le loro forze la 10. Armee, che si ritirava lentamente (essendo composta di divisioni di fanteria, paracadutisti e alpini) da Cassino verso nord. Il successo era quasi sicuro. Ma forse al comando alleato, non abituato alla Auftragstaktik, mancò il coraggio di impostare una così grande manovra di accerchiamento. Certamente lo stato maggiore americano non seppe sfruttare il successo di Valmontone. D’altra parte devo aggiungere che gli americani, anche ai livelli medio e bassi, non hanno mai saputo sfruttare le situazioni favorevoli nei settori di loro competenza. Dico ciò in base alla mia esperienza di difensore di Valmontone, Gorga e Colleferro. Von Tippelskirch rileva come la 10. Armee si trovasse dopo Valmontone in una situazione di estremo pericolo, non essendo stata in grado di sfruttare i sei giorni guadagnati a Valmontone (25 maggio – 1 giugno 1944) per unire la sua ala destra all’ala sinistra della 14. Armee. Qui gli alleati non hanno saputo sfruttare l’errore commesso dal nostro gruppo d’armate.

Effettivamente, dopo la caduta di Roma si creò un enorme spazio vuoto fra la 14. Armee sul fronte tirrenico e la 10. Armee in ritirata al centro e sull’Adriatico. La 14. Armee, con poche divisioni (la 3. Panzergrenadier-Division, la 4. Fallschirmjäger-Division, la 65. Infanterie-Division e parte della 362. Infanterie-Division, quasi tutte decimate), era minacciata di accerchiamento dagli americani, che avanzavano a una media di 10 km al giorno. La 10. Armee, in lenta ritirata, difendeva il fianco sinistro con la sola 15. Panzergrenadier-Division ed era anch’essa in grave pericolo di accerchiamento, poiché doveva raccogliere i resti delle divisioni che avevano combattuto nel settore sud di Anzio (715. Infanterie-Division e parte della 362. Infanterie-Division).

Per evitare un aggiramento e allineare le due Armate chiudendo lo spazio vuoto, Kesselring creò uno “Schwerpunkt” nella Valle Tiberina, da Tivoli al Lago Trasimeno, con quattro divisioni: la 26. Panzer-Division, le 29. Panzergrenadier-Division e 90. Panzergrenadier-Division, e la 1. Fallschirmjäger-Division (dal 4 al 16 giugno ’44). Per fare questo, egli spostò il fronte dalla direzione sud alla direzione ovest contro le truppe americane lungo la costa. Questo “Schwerpunkt” doveva assicurare l’ala destra della 10. Armee, facilitando la sua ritirata e difendendo la “posizione di sbarramento” tra Tivoli e Acquapendente con l’intero XIV Panzerkorps. Le quattro divisioni si scavalcarono l’una con l’altra, costruendo un nuovo fronte che univa le due Armate.

Mappa dell’avanzata alleata da Roma verso nord e il posizionamento della Linea del Trasimeno (Linea “Albert”)

La riuscita di questa manovra ritardatrice di contenimento dell’avanzata alleata nell’Italia centrale riscuote il plauso del Generale Puddu, uno storico che dimostra di conoscere bene l’esercito tedesco, tanto che sembra che le sue annotazioni siano state scritte da un generale tedesco nelle sue Memorie di guerra. Dopo aver rilevato la gravità della situazione tedesca, egli aggiungeva: “Inoltre, la soluzione del problema operativo tedesco era complicata: dalla minima sicurezza delle predisposizioni di difesa costiera, per la mancanza di adeguati mezzi navali e aerei atti a impedire uno sbarco; dall’incapacità della propria ricognizione aerea a dare notizie tempestive sulle intenzioni e i movimenti del nemico; dalla difficoltà di assicurare i propri rifornimenti stante il dominio aereo tenuto dagli alleati; dall’insufficienza della rete stradale e ferroviaria e, infine, dalle difficoltà opposte dalla natura montuosa del terreno.” Condivido le osservazioni del generale Puddu. Abbiamo sofferto molto per l’incapacità del nostro Nachrichtendienst (Servizio Informazioni). Per noi, in prima linea, era già tanto sapere se di fronte avevamo i marocchini, i polacchi, gli inglesi, i canadesi o i Gurkhas, ecc. Spesso ricevevamo l’ordine (e non il compito!) di catturare prigionieri per ottenere informazioni da fornire ai nostri superiori Comandi reggimentali o divisionali! Per quanto riguarda i rifornimenti, però, non sono d’accordo con Puddu. La mia esperienza è limitata, ma la 29. Panzergrenadier-Division, in quanto divisione speciale e mobile, non soffrì mai carenze di viveri, vestiario, rimpiazzi, mezzi, Panzerfaust anticarro, munizioni, carburante, ecc., fino al 18 aprile ’45 (quando fui catturato). Puddu prosegue: “Tuttavia, gran parte di queste difficoltà poterono essere superate durante la prima e la seconda fase della battaglia grazie alla ferrea volontà dei capi; alla capacità degli Stati Maggiori; al valore delle truppe; all’intenso addestramento, specie per il Kampf (combattimento) corpo a corpo e negli abitati; all’intima cooperazione tra Infanterie e Artillerie; alla graduale e oculata immissione dei nuovi reparti nel combattimento, impiegando pattuglie di anziani ben orientate per ambientare le truppe assegnate; all’intenso lavoro nelle zone di combattimento per migliorare le posizioni occupate.”

Per quanto riguarda la graduale e oculata immissione in combattimento dei nuovi reparti posso confermare integralmente le sue parole. Il nostro sistema di immissione in prima linea dei nuovi Einheiten e dei singoli ci ha fatto risparmiare molto sangue e ha dato subito ai soldati una certa sicurezza nel combattimento. Nella mia Kompanie, dal 19 maggio al 26 ottobre, ho ricevuto 285 rimpiazzi, a gruppi di 20, 40, 50, 70 per volta. Non li immettevo mai in prima fila tutti insieme, ma a piccoli gruppi di 5. Solo a Lastra a Signa, avendo ricevuto un gruppo di 70 rimpiazzi, dovetti metterli al fronte a gruppi di 10 perché l’urgenza del tempo non mi permetteva di diluire troppo il loro impiego.

Puddu dice ancora: “L’azione ritardatrice dei tedeschi fu resa possibile anche per le continue interruzioni di ponti, per il minamento di estese zone di transito e per la distruzione di ogni genere, che essi effettuarono con la loro tradizionale meticolosità.” Tuttavia, per quanto queste condizioni favorevoli abbiano potuto influire nel facilitare l’azione del Deutsches Kommando, si deve convenire che il superamento della crisi prima e l’ordinato ripiegamento poi siano da attribuire, in grado preminente, all’abilità di detto Kommando, che freddamente valutò il pericolo e prontamente provvide a fronteggiarlo, e allo spirito delle Truppen che, pur subendo gravi perdite, mantennero intatti la loro compagine e lo spirito aggressivo. L’abilità del Oberkommando der Wehrmacht è riconosciuta anche dagli storici nemici, che rilevano la capacità dei comandanti tedeschi nel valutare esattamente tutti i pericoli e nel saper prendere le adeguate misure in breve tempo. In secondo luogo, essi riuscirono a mantenere unite e ordinate le loro Kompanien, conservandone lo spirito combattivo malgrado le gravissime perdite. Queste osservazioni sono esatte. Noi obbedivamo a un ordine morale che non ci fu mai dato, ma che abbiamo sempre seguito: meglio perdere il terreno, piuttosto che disgregare la Kompanie! E così abbiamo tenuto intatta la Kompanie malgrado i durissimi combattimenti, che ci sono costati perdite forti e fortissime e che spesso hanno isolato una Kompanie dalle altre.

Per dare un’idea della gravità delle perdite nei 13 giorni dal 21.5 al 2.6.44 (battaglia di Roma), basta menzionare le perdite dei 6 Bataillonen della 29. Panzergrenadier-Division: I/15 Bataillon: 192 uomini (37%); II/15 Bataillon: 200 uomini (39%); III/15 Bataillon: 198 uomini (38%); I/71 Bataillon: 225 uomini (43%); II/71 Bataillon: 258 uomini (50%); III/71 Bataillon: 212 uomini (41%). In tutto, la 29. Panzergrenadier-Division perse 2.066 uomini fra morti, feriti e dispersi (senza contare i malati), di cui 1.591 Panzergrenadiere, 247 esploratori, 145 artiglieri, 41 genieri, 21 addetti alle trasmissioni, 21 addetti ai servizi logistici. I caduti sono stati 268, i feriti 889, i dispersi 909.

 

Che cosa fu per noi, tedeschi combattenti di prima linea, la guerra in Italia

Non c’è che concordare con quanto scrisse Nardini, tenendo presente che le condizioni della lotta da lui descritte sono le stesse che il mio reggimento, reduce dalla dura battaglia di Rimini e dai continui combattimenti a sud di Cesena contro i canadesi e i gurkhas, ridotto a metà organico, affrontò nell’ultima decade di ottobre, quando si oppose alla 34ª divisione di fanteria americana nella valle dello Zena, a 15 km da Bologna: “Ogni singola casa, ogni collina, ogni metro di terreno doveva essere tolto ai tedeschi con gravissime perdite, e nessuno degli americani si aspettava una rapida fine di questa situazione. Appena avevano oltrepassato un fiume, ne veniva un altro; appena era conquistata una collina o montagna, un’altra si ergeva davanti a loro, da cui venivano colpiti con bombe e granate. I carri armati si fermavano nel fango, gli aerei non potevano partire per le condizioni del tempo. Quando poi si passava di colpo alla guerra di uomo contro uomo, gli americani parevano essere senza vigore.”

I generali inglesi intendevano annientare le truppe tedesche a sud della linea Pisa-Rimini (la Linea Gotica, in senso lato) per poter poi avanzare oltre la strettoia di Lubiana fino a Vienna, ma il fallimento dei loro piani nell’inseguimento dopo Roma pregiudicò sotto molti punti di vista i loro piani strategici riguardanti l’Europa centrale (von Senger).

Il “punto di forza” della Linea Gotica

Lo Schwerpunkt della Linea Gotica potrebbe essere un classico esempio da insegnarsi nelle Scuole di Guerra. Non sapendo dove su un così lungo fronte di 320 km gli Alleati avrebbero scatenato la loro offensiva, né se questa sarebbe avvenuta in un unico settore o in settori diversi, al Gruppo d’Armate non restava altro da fare che quello che fece: dislocare le truppe secondo una formula matematica, 2/3 della forza (13 divisioni) lungo il fronte, 1/3 (7 divisioni) in riserva o difesa costiera. Dopo che fu chiaro che dal 25 agosto solo l’8th Army britannica portava avanti l’offensiva, il Gruppo d’Armate spostava e trasferiva le 7 divisioni disponibili nel settore adriatico, creando due settori di lotta molto differenti.:

  1. un settore di 270 km con 3 Corps e 10 Divisionen, con il vuoto alle spalle;
  2. un settore di soli 50 km con un solo Corpo d’Armata, il XIV Panzerkorps, con 10 Divisionen. Quest’ultimo settore divenne lo Schwerpunkt di Kesselring.

Il trasferimento di 7 Divisionen nel settore adriatico dovette superare grandi difficoltà. A causa del dominio aereo nemico, le nostre Divisionen potevano muoversi solo di notte (circa 8 ore su 24!) e perciò il trasferimento durò venti giorni. Ma fu svolto in maniera eccellente e riuscì nel suo scopo di fermare gli Alleati al Rubicone. C’è da rilevare inoltre che al successo dello Schwerpunkt adriatico contribuì la mancata contemporaneità di un’offensiva nel settore di 270 km. Se gli Alleati avessero attaccato contemporaneamente la Linea Gotica, questa sarebbe crollata perché i tedeschi non avevano altre riserve disponibili. Nella seconda fase poi, gli attacchi a tempi scaglionati, prima verso Cesena, poi sulla Firenze-Bologna, dettero al Gruppo d’Armate tedesco la possibilità di spostare con calma le Divisionen dall’Adriatico nei settori montani minacciati. Si crearono così nuovi Schwerpunkt che riuscirono a logorare le Allied divisions, in questo caso le 4 Allied divisions americane, fermandole a 15 km da Bologna. Da prendere in considerazione anche l’opinione di Puddu che l’attacco britannico in Romagna fu lanciato su un fronte troppo stretto, per quanto scaglionato in profondità, il che rese possibile all’avversario di rafforzare al massimo le difese e non si pensò a un attacco laterale di fianco con base di partenza dalla Valle Tiberina. Così l’attacco iniziale, nonostante il valore dei canadesi e dei polacchi, divenne una tipica battaglia di logoramento.

Un accenno particolare merita l’organizzazione difensiva tedesca sulla Linea Gotica, che illustra chiaramente i sistemi della difesa mobile. Per l’impossibilità di presidiare l’intera linea con una densità sufficiente di forze e visti per esperienza i limiti della continuità d’una linea difensiva, i tedeschi sostituirono alla rigidità delle posizioni l’elasticità di condotta, la flessibilità e la fluidità del dispositivo. Acquistò allora valore decisivo la reattività a tutti i livelli anche a scapito della densità degli schieramenti e si valorizzò lo sfruttamento degli ostacoli naturali, in particolare dei corsi d’acqua, come posizione di riferimento, di attestamento e di resistenza a oltranza. L’adozione dei procedimenti di difesa mobile che tendevano alla paralisi dell’attacco, più che all’annientamento delle forze che lo conducevano, permise alle truppe tedesche di ottenere successi difensivi anche sui terreni di pianura e collinari. Le Einheiten (unità) germaniche ricorsero all’osservazione, condotta da elementi leggeri ed estremamente mobili, al frenaggio con l’installazione di avamposti, e all’arresto dell’attacco alleato mediante un sistema di caposaldi o di posizioni di sbarramento (Riegelstellung), presidiati da Züge (plotoni) o da Kompanien (compagnie) disposte in profondità nel settore difensivo. I caposaldi o le posizioni di sbarramento, potenziati da campi minati, erano in genere installati nei pressi delle vie di comunicazione e sulle alture che le dominavano, dietro un ostacolo naturale o artificiale importante (argini, canali) che conveniva valorizzare, o in una zona che consentiva la copertura o la possibilità di sottrarsi all’osservazione aerea avversaria.

La condotta elastica della difesa, attraverso le posizioni organizzate in profondità, prevedeva l’esecuzione di immediati Gegenangriffe (contrattacchi) con riserve locali tenute nei pressi della linea avanzata. Se questi Gegenangriffe non avessero avuto successo, il Oberkommando (Comando superiore) avrebbe rinunciato alla riconquista della precedente linea di difesa per risparmiare le forze; in tal caso, veniva costituita una linea di difesa principale più indietro (tattica delle linee). L’esigenza di formare una riserva per occupare la zona in profondità portò i tedeschi a diluire ulteriormente la linea principale di combattimento anche a prezzo del suo indebolimento. La profondità del dispositivo di una Division (divisione) schierata a difesa era assicurata, a livello divisionale, dai Aufklärungsbataillone (battaglioni esploranti) o Panzerjäger (controcarro), e a livello reggimentale da una Sturmkompanie (compagnia d’assalto). Nelle Infanteriedivisionen (divisioni di fanteria) mancava il 3º Bataillon (battaglione) di ogni reggimento, eliminato a seguito della ristrutturazione organica delle Infanteriedivisionen, terminata nell’estate 1944. Il dispositivo divisionale poteva variare in caso di Schwerpunkt e in relazione al tipo di unità (fanteria, granatieri corazzati, ecc.). Inoltre, a seconda delle caratteristiche del terreno e della capacità dei Kommandanten (Comandanti) di prevedere o meno dove l’avversario potesse attaccare (anche in relazione ai metodi degli alleati), cambiava la disposizione delle unità disposte in profondità.

Se dallo studio del terreno emergevano limitate direzioni di possibile penetrazione avversaria, le unità in riserva venivano schierate in posizioni di sbarramento pre-pianificate (Riegelstellungen) o in caposaldi nel settore montano; in caso contrario, queste erano dislocate a tergo in una zona più o meno baricentrica, idonea per intervenire rapidamente in più punti. Le prime erano posizioni preparate, occupate o predisposte, situate immediatamente a tergo della linea avanzata oppure a una certa distanza. Le Riegelstellungen consentivano alla truppa di ancorarsi ad esse nell’eventualità di una penetrazione nemica, di non coinvolgere nel ripiegamento i settori di fronte contigui non investiti dal nemico e di allacciarsi alla precedente linea di resistenza. Tali posizioni, inoltre, potevano essere costituite semplicemente da un allineamento sul quale un reparto avrebbe dovuto attestarsi per bloccare una penetrazione avversaria non prevista, oppure rappresentare una base dalla quale condurre i Gegenangriffe (contrattacchi).

La scelta del tipo di difesa in profondità era responsabilità dei Kommandanten (Comandanti) a tutti i livelli. I caposaldi, realizzati principalmente nel tratto montano della Linea Gotica, erano disposti in profondità sino a tre ordini successivi. Le loro posizioni avanzate, invece di essere costituite da linee fisse e continue, erano tenute da gruppi di avamposti protetti da intricate linee di fuoco difensivo. A tergo, attendevano in zone di riserva, opportunamente protette, le forze di Gegenangriff (contrattacco). Frequenti erano le posizioni in contropendenza, anche se noi della 29. Panzergrenadier-Division non le abbiamo mai applicate. La carenza di forze in alcuni settori secondari montani, infine, costrinse i deutsche Kommandos (Comandi tedeschi) a tenere sguarniti interi tratti di fronte. Si vedano per esempio le posizioni della 305. Infanterie-Division nel settore forlivese Portico-Galeata sulla Linea Verde (o Gotica) n. 2, ove il 576. Grenadier-Regiment doveva difendere un settore largo 20 km con soli 3 Battaglioni, per cui a difese in profondità di 3 o 4 scaglioni, poste sulle strade, si alternavano ampi spazi vuoti, senza un soldato, larghi fino a 6 km. (Difesa a settore largo). Si condusse allora la cosiddetta Verteidigung/Offensive (difesa/offesa) che consisteva in azioni aggressive effettuate da unità di circa 30 uomini, le quali, spostandosi in continuazione lungo tutto quel tratto di fronte non presidiato, attaccavano le posizioni dell’avversario per mantenerlo costantemente sotto pressione, ingannandolo sulla reale consistenza della difesa.

Le battaglie dell’offensiva della Linea Gotica sono, purtroppo, poco conosciute in Germania per il semplice motivo che l’attenzione degli storici è stata attratta dalle vicende belliche dei fronti a est e a ovest. Esse tuttavia costituiscono, a detta di Kesselring, una pagina famosa nella storia militare della Germania, una grande vittoria difensiva ammessa dallo stesso Churchill quando parla di fallimento dell’offensiva di Alexander, che ebbe per gli alleati le più gravi conseguenze sul futuro dell’Europa sud-orientale. In esse rifulse la genialità tattica di Kesselring, il quale, contro il volere di Hitler che non intendeva cedere al nemico un metro di terra, seppe adottare una difesa elastica che, approfittando degli errori nemici, salvò l’esercito tedesco in Italia bloccando per ben sei mesi l’avanzata degli strapotenti eserciti alleati.

Le fasi principali dell’Operazione Olive (o battaglia di Rimini), prima fase dell’Offensiva di Alexander, si possono identificare nella prima battaglia di Coriano, quando l’avanzata dell’8th Army britannica fu arrestata bruscamente davanti al crinale corianese fra Riccione e Rimini, e nello sfondamento della Linea Gialla (o Linea Rimini), quando gli attaccanti non seppero sfruttare il successo dello sfondamento. Il giudizio dei comandanti tedeschi sulla conduzione alleata della 1ª battaglia di Coriano, scrive Montemaggi, è improntato allo stupore per una simile condotta tattica. Invece di puntare direttamente su Rimini con tutto il peso delle loro forze corazzate, Alexander e Leese, il comandante dell’8th Army britannica, avevano disperso i loro mezzi sulle colline di Coriano, indebolendo la forza d’attacco. Non sarà inopportuno rilevare che questo giudizio dei comandanti tedeschi sull’Adriatico contrasta con quello di von Senger, allora sul Tirreno, il quale attribuisce il fallimento dell’attacco alleato non tanto all’errore tattico di Leese, quanto al fatto che i mezzi corazzati non erano più all’altezza delle mutate condizioni tattiche della guerra. Un giudizio sull’efficacia dei carri armati nella battaglia di Rimini è difficile. Il terreno lungo la costa e più all’interno si prestava al loro uso, e noi adoperammo i pochi nostri a regola d’arte. La nostra Division (divisione) era meno che dimezzata e a 5 km da Rimini, sulla Montescudo-Rimini, la via era sbarrata solo dalla mia Kompanie (compagnia) e dai 4 carri armati del sottotenente Hecht. Un Panzerbataillon (battaglione corazzato) nemico avrebbe potuto sfondare agevolmente. Noi ci chiedevamo perché non lo facessero.

E il colonnello Horst Pretzell, Capo Ufficio Operazioni della 10. Armee, nell’estate 1945 scrisse per il Comando Supremo alleato) le sue osservazioni: “Fino a oggi non è completamente chiaro, dal punto di vista tedesco, perché gli Alleati non sfruttassero subito il successo dello sfondamento della Linea Gotica, puntando direttamente su Rimini, senza curarsi dei fianchi. Allora i tedeschi non avevano più riserve capaci di offrire una resistenza degna di questo nome a uno sfondamento tanto inaspettato […] Durante il successivo corso della battaglia (la battaglia di Coriano, n.d.r.) sarebbe stato forse di maggior vantaggio per il potere dirompente dell’offensiva se ci fosse stata una più marcata concentrazione delle forze sulle ali interne dei Corpi d’Armata attaccanti e se queste forze fossero state impiegate in un attacco concentrico nel settore costiero (il settore canadese), più idoneo alle operazioni dei tanks. L’ostinazione con cui le truppe del V Corpo Britannico furono sprecate negli attacchi contro le alture di Gemmano e di Coriano causò la dispersione di considerevoli forze dall’attacco principale. Ne risultò che il corso dell’offensiva fu notevolmente ritardato.” (nelle foto, carri impegnati nelle battaglie di Coriano)

Lo sfondamento della Linea Gialla riminese e il mancato sfruttamento del successo da parte degli Alleati sono il momento culminante della battaglia di Rimini, in cui la 29. Panzergrenadier-Division ebbe una parte da protagonista contro il I Canadian Corps (I Corpo d’Armata canadese), che era divenuto la punta di diamante dell’offensiva stessa. L’attacco alleato fu preceduto da un “mostruoso” bombardamento terrestre, aereo e navale. Scrivono i cronisti della 29ª: “Il nemico ha impiegato una massa di uomini e mezzi finora sconosciuta nella guerra in Italia. Mentre i bombardieri attaccavano le postazioni di artiglieria, i cacciabombardieri erano permanentemente in cielo per attaccare qualsiasi obiettivo, sia pure un singolo camion e talvolta un singolo soldato.” Ricordo quei bombardamenti come un incubo. La mia compagnia era appostata in un campo presso il fiume Ausa sotto quel fuoco tambureggiante (Trommelfeuer) nella notte fra il 16 e il 17. Furono tre ore di fuoco che sembrava non finissero mai. Con questo sistema l’artiglieria nemica bloccava spesso i nostri rifornimenti notturni. E non vorrei dimenticare che i cacciabombardieri quasi regolarmente attaccavano i nostri portaordini motociclisti, come se sapessero che tutto il nostro sistema di comunicazioni si basava su di loro. Riprendono i cronisti della 29ª: “L’artiglieria nemica era molto superiore alla nostra. Le munizioni a loro disposizione erano molte volte di più delle nostre. L’artiglieria navale intervenne pure nelle battaglie terrestri con grande successo.”

Effettivamente l’artiglieria nemica aveva a disposizione tutto quello che voleva e come gli pareva. Quando fui fatto prigioniero, passando fra le loro batterie, vidi il loro sistema. Arrivavano con i camion fino alle postazioni delle batterie, i camion si affiancavano a ogni singolo pezzo d’artiglieria, e le granate passavano direttamente dal veicolo al cannone. Dalle nostre posizioni parte un rabbioso, devastante fuoco di difesa. I nostri mortai — che nella notte dal 19 al 20 settembre sono stati riforniti con grande difficoltà con una scorta di 1.000 granate — oppongono davanti alle nostre posizioni un tale sbarramento di fuoco che il nemico attaccante perde la vista e l’udito. I mortai, sia quelli da 80 mm. che quelli da 120 mm., erano la nostra salvezza. Durante il giorno la nostra artiglieria pesante da campagna non poteva intervenire con tiri di controbatteria e di sbarramento per non esporsi ai cacciabombardieri nemici, sempre in agguato dall’alto. I canadesi, nostri diretti avversari nella battaglia di Rimini, asseriscono di aver molto sofferto per i tiri della nostra artiglieria. Io ritengo che essi abbiano molto sofferto per i nostri mortai e la nostra artiglieria di fanteria. I mortai e l’artiglieria di fanteria erano diventati la nostra artiglieria con il motto Hilf dir selbst, dann hilf Gott (“Aiutati che il ciel t’aiuta”). Per questo, sulla base della mia esperienza, io insegno alla Scuola di Guerra canadese che la fanteria, per difendersi bene, ha bisogno di mortai efficienti, di cannoni da fanteria e di armi controcarro di qualsiasi tipo. La campagna d’Italia insegna.

Adoperando un sistema messo a punto nella Prima Guerra Mondiale, proprio sul fronte italiano, gli inglesi, a cominciare dalla notte del 18 settembre, illuminarono il campo di battaglia con potenti proiettori. La prima volta, verso le ore 22, gli abbaglianti del nemico illuminarono tutto il cielo, puntando sia contro la prima linea sia contro le nubi, annotano i cronisti della 29ª. “Questi abbaglianti cercano di ostacolare l’osservazione verso il nemico, ma d’altra parte sono d’aiuto per i nostri autisti dei servizi, che si possono orientare più rapidamente e non vengono più ostacolati dai crateri delle granate. Ricordo bene che quell’illuminazione non era di nessun ostacolo all’osservazione. Anzi, ci permetteva di vedere meglio il nemico, e ciò è anche dimostrato dal fatto che quando gli abbaglianti erano in funzione il nemico non attaccava né noi, né i nostri movimenti notturni.”

Piuttosto era da incubo la presenza della nebbia. E qui sottoscrivo interamente le parole di Nardini che, pur riferendosi a Cassino, descrivono l’aspetto del campo di battaglia riminese sotto gli incessanti bombardamenti aerei e i cannoneggiamenti di terra e dal mare: “Nebbia davanti agli avamposti, nebbia davanti al nemico, nebbia davanti agli hotels, nebbia per prendere i feriti, nebbia per portare le munizioni, nebbia, nebbia… Il giorno non esisteva più; c’erano solo due specie di notti: una giallognola, piena di nubi, che non permetteva di vedere e prendeva alla gola, l’altra piena di lampi, di sprazzi di luci, di raffiche di mitragliatrice, di rumori paurosi.” Era questo l’ambiente del nostro attacco sull’Ausa il 17 settembre e quello, più tardi, dell’attraversamento dell’Uso, nei pressi di Santarcangelo. Nella 2ª battaglia di Coriano, dove la 29ª distrusse 46 carri nemici, i nostri fortilizi erano le case su cui si basava la nostra difesa mobile. Usavamo le case o le loro rovine per difenderci il più a lungo possibile: esse ci riparavano dal fuoco di qualsiasi arma.

L’errore alleato di aver diretto la carica decisiva della 1st Armoured Division britannica contro il crinale di Coriano invece che contro la piana dell’aeroporto riminese di Miramare è rilevato anche dai cronisti della 29. Panzergrenadier-Division, quando scrivono che il pericolo maggiore era lungo la costa, ove il terreno offriva al difensore poche possibilità. Il nemico avrebbe potuto impiegare i suoi carri in massa e appoggiare la sua avanzata con l’urto dell’aviazione e delle artiglierie terrestri e navali. Un attacco di sfondamento avrebbe aggirato le ultime postazioni difensive di Coriano e del colle di Covignano e avrebbe permesso al nemico di attaccare le nostre difese sul fianco, evitandogli di autodistruggersi con i soliti attacchi frontali. Questo commento è stato evidentemente ispirato dal generale Polack, che comandò la Divisione dal primo settembre, o dal generale Herr, che comandava il LXXVI Panzerkorps, ma era anche il commento che facevamo noi sulla linea del fronte. Infatti, i soliti attacchi frontali, a Cassino e in altre zone, permettevano a noi di difenderci meglio e a loro di avanzare molto lentamente.

Il 19 settembre si scatenò su tutto il fronte, da Rimini a San Marino, l’attacco alleato preparato da uno spaventoso bombardamento terrestre, aereo e navale. Il punto centrale della lotta fu l’ameno colle di Covignano, attaccato da due brigate canadesi e difeso dai due reggimenti della 29ª, che nel centro del loro schieramento a San Fortunato avevano dovuto mettere i turcomanni della 162ª divisione di fanteria. Terrorizzati dai bombardamenti, i turcomanni si arresero, permettendo ai canadesi di sfondare l’ultima difesa tedesca prima della pianura padana. La mattina del 20 la divisione resiste ancora in due isole: a villa Battaglini/Bianchini) e a San Lorenzo a Monte. Tutto il settore attorno era aperto all’attacco nemico. La divisione era alla fine delle sue forze — scrivono i cronisti.

Ed ecco la novità, che per altro non è una novità. Gli alleati vittoriosi non sfruttano il successo. Per motivi inconcepibili, il nemico si ferma e non sfrutta con vigore questa sua opportunità. Forse gli fece impressione la inaspettata e decisa resistenza di quei due piccoli centri isolati. Ed è per merito di questi due gruppi di combattenti che la giornata non finisce in una catastrofe. A un attacco di sfondamento, lanciato dal nemico con tutte le sue forze, la divisione non avrebbe avuto più nulla da opporgli.  La battaglia del Covignano, nota nelle cronache alleate come la battaglia di San Fortunato, è un classico esempio di mancato sfruttamento del successo. Come tante altre volte durante la campagna d’Italia, il nemico ci ha dato il tempo di riorganizzarci, di occupare nuove posizioni difensive e di prepararci a resistere a un nuovo attacco. Un ufficiale tedesco, anche a livello di comandante di compagnia, sapendo che il compito del reggimento era quello di raggiungere il Marecchia, non si sarebbe fermato davanti all’isolata resistenza di San Lorenzo a Monte, ma avrebbe proseguito verso il fiume, per arrivarvi prima del nemico in ritirata! Noi ci ritirammo in buon ordine, indisturbati, occupando posizioni difensive intermedie, scavalcando un caposaldo dietro l’altro, con un metodo provato durante i nostri addestramenti, che ci diede sicurezza e calma, mentre il nemico rimaneva sufficientemente lontano alle nostre spalle. Per la divisione questa pausa del 20 e 21 settembre fu un regalo inaspettato. Ci diede la possibilità di organizzare tutti i reparti e di riordinarli per il prossimo impiego a nord del Marecchia.

I generali alleati addussero a causa del mancato sfruttamento del successo le piogge, che effettivamente provocarono una forte inondazione… ma qualche giorno più tardi! La loro giustificazione non convince — scrivono i cronisti della 29ª. “Sulla riva meridionale del Marecchia erano rimasti pochi avamposti. Il fiume, nel nostro settore, con le sue sponde basse, con il letto duro di ghiaia e quasi senz’acqua, non rappresentava certo un ostacolo (lo prova anche il fatto che, per questi motivi di praticabilità del letto del fiume, fu giudicata naturalmente inutile la distruzione del famoso ponte romano di Tiberio, che venne lasciato intatto dai genieri tedeschi).” Personalmente non ricordo alcuna pioggia, il 20 e il 21 settembre. Ricordo che ritirandoci verso l’Uso, nei pressi di San Vito, la campagna era illuminata dai pagliai incendiati dalle opposte artiglierie, cosa che non sarebbe successa se i pagliai fossero stati bagnati.

La battaglia di Rimini fu la più grande battaglia di mezzi in Italia. Il nemico, in tutti i campi largamente superiore, possedeva la piena padronanza dell’aria. Poteva cambiare spesso le sue truppe e attaccare dopo pochi giorni con forze fresche. Una gran parte del suo successo era dovuta all’artiglieria, che poteva contare su un enorme numero di pezzi di tutti i calibri e su una enorme quantità di munizioni. Spesso la loro artiglieria distrusse le nostre postazioni difensive prima ancora dell’attacco delle fanterie, spezzando il morale delle nostre truppe… Se il nemico, nonostante questo, non ebbe successo, fu per la sistematica rigidità dei suoi attacchi, che volevano evitare qualsiasi rischio, e per la fermezza delle nostre fanterie e delle loro armi d’appoggio. Tutti i reparti combattenti diedero prova di forze sovrumane.

Questa è la storia della battaglia di Rimini vista dalla 29ª divisione di Granatieri Corazzati, che ne fu una delle protagoniste. Per parte mia vorrei aggiungere tre cose:

  1. Gli alleati cambiavano spesso le loro truppe, mentre noi tenevamo in prima linea gli stessi uomini e ciò ci ha logorato profondamente;
  2. Dall’inizio della 2ª battaglia di Coriano, il 13 settembre, abbiamo combattuto di continuo, giorno e notte, passando da una situazione di emergenza e crisi a un’altra, con le compagnie quasi sempre isolate. Il nostro morale ne ha risentito fortemente tanto che alla fine è dovuta intervenire la Feldgendarmerie per fermare i singoli soldati sbandati;
  3. L’appoggio alle fanterie fu dato dai mortai di compagnia (80 mm.), dai mortai di battaglione (120 mm.) e dall’artiglieria di fanteria reggimentale. La nostra artiglieria pesante da campagna nel mio settore di prima linea non si vide mai di giorno, né si sentì mai di notte.

Ma l’offensiva della Linea Gotica non finì con la battaglia di Rimini e lo stop imposto alle truppe alleate il 29 settembre sul fiume Rubicone. Il nuovo comandante dell’8ª Armata britannica spostò la lotta sulle colline a sud di Cesena, per cui il mio reggimento fu mandato a Montecodruzzo e a Monteleone a combattere contro i mongolo-nepalesi Gurkha, terribili nei combattimenti notturni. Poi fummo trasferiti a sud di Bologna per opporci agli americani. Le nostre perdite erano state pesanti. Al Rubicone la mia compagnia era ridotta a 30 uomini. In tre giorni fu riportata a 110 combattenti, più della metà dei quali li perdemmo nei 12 giorni di combattimento contro i Gurkha. Quando giungemmo sul nuovo fronte bolognese eravamo appena una cinquantina.

La 29. Panzergrenadier-Division aveva ricevuto il compito di inserirsi fra la 65. Infanterie-Division a destra e la 362. Infanterie-Division a sinistra, fra la statale 65 Firenze-Bologna e la valle del fiume Zena. Il nostro 15. Regiment combatteva a sud di Cesena quando il 71. Regiment difendeva il settore a sud di Zula e Castel di Zena. Il II/15 Bataillon arrivò il 20 ottobre nel settore di Gorgognano, il I/15 Bataillon si posizionò il giorno dopo nel settore di Casa Casetta al centro della valle, poi giunse anche il III/15 Bataillon nel settore del Poggio. Sui monti alla nostra sinistra si posizionò il reparto esplorante Aufklärungs-Abteilung 400. Il fiume era in piena a causa delle piogge ininterrotte. La valle molto stretta non permetteva a un battaglione di spiegarsi adeguatamente, e le posizioni dominanti erano in mano agli americani della 34th Infantry Division. Sul fondovalle c’era solo una strada, con poche mulattiere e qualche sparso gruppo di case. Ogni tanto si vedeva qualche rara casa isolata: la terra grigia e fangosa ricopriva un fondo roccioso nel quale era impossibile scavare qualsiasi apprestamento difensivo.

I combattimenti iniziano subito: il 71. Regiment contro la 91st Infantry Division americana, il 15. Regiment contro la 34th Infantry Division. Il modo di combattere degli americani è ben diverso dal nostro. Ci hanno dato l’impressione di essere ancora immaturi per la lotta. Un po’ di pioggia, un po’ di fiume sopra gli argini, e i combattimenti venivano sospesi. Beati loro! Sembra che non volessero più combattere. Si davano prigionieri con grande leggerezza. Solo così si possono comprendere le numerose catture di 100, 80, 70 o 50 prigionieri alla volta! Lasciavano rapidamente le loro posizioni per ritirarsi, mentre i nostri Oberkommando (Comandi Superiori) non parevano avere alcuna comprensione per noi. Si attraversava, se necessario, il fiume Zena in piena tre o quattro volte… e noi bagnati fradici, dalla testa ai piedi, non avevamo alcuna possibilità di asciugarci in breve tempo. Bisognava combattere sotto la pioggia violenta, sul terreno scivoloso, nel freddo della notte. Credo che siamo sopravvissuti solamente perché abbiamo acceso dei fuochi nei camini di qualche casa, per riscaldarci a turno, squadra dopo squadra, ingurgitando forti liquori, vodka…

Come ho detto, il mio Battaglione difendeva la valle dello Zena, cambiando spesso posizioni e articolazioni difensive, da tre Kompanien (compagnie) in linea a tre scaglioni in profondità. Fra il 20 e il 31 ottobre, il diario della mia Kompanie descrive il susseguirsi degli scontri, fra cui l’attacco americano del 24 che ci costrinse ad abbandonare il Poggio, l’arretramento in 2º e 3º scaglione quando il III/15 Bataillon ci rimpiazza in prima linea il 25, il contrattacco della mia Kompanie e della 9ª Kompanie del III Bataillon per la riconquista del Poggio e la cattura di una cinquantina di nemici il 26, il posizionamento del mio comando a Casa Casetta e gli attacchi americani nelle notti del 28, 29 e 30 ottobre, respinti tutti con successo. I rimpiazzi mi crearono nuovi problemi: una trentina di ragazzi diciassettenni che dovevo frenare e una quindicina di ex avieri della Luftwaffe, che erano stati per sei anni di stanza in Germania e non avevano né esperienza né voglia di combattimento.

Poi, il 31 ottobre, mi ammalo e vengo trasportato all’ospedale da campo n. 29 a Montagnana. Durante la mia assenza, gli americani prendono finalmente Casa Casetta, ma ne vengono ricacciati qualche giorno dopo.

Fu così che la spinta di Clark si fermò alla fine di ottobre, a 15 km da Bologna.

Queste sono le parole di GERHARD MUHM

Bibliografia

Documenti e testi documentari:

  • Ktb (Kriegstagebücher) della 10ª Armata e della 14ª Armata, del 76° Pz. Korps e del 14° Pz. Korps; Zustandsberichte (Mtl) della 29ª Pz. Gren. Div. 1.7.43 – 1.4.45.
  • Storie divisionali di Heinz Greiner, 362ª Div.; Harry Hoppe, 278ª Div.; Joachim Lemelsen, 29ª Div.
  • Gerhard Muhm, Geschichte der 1. Kp. Pz. Gren. Rgt. 15 (1945-46).

Altre fonti:

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  • Gordon A. Craig, Die Preussische-deutsche Armee 1640-1945, Dresden, 1980.
  • Müller-Hillebrand, Das Deutsche Heer 1939-1945, Ed. Mittler, 1954.
  • G. Battisti, Studio sulla Linea Gotica e sui principi della dottrina difensiva dell’Esercito Tedesco 1944-45.
  • Werner Haupt, Kriegsschauplatz Italien 1943-1945, Stuttgart, 1977.
  • Albert Kesselring, Soldat bis zum letzten Tag, 1954.
  • Amedeo Montemaggi, Offensiva della Linea Gotica, Bologna, 1980.
  • Amedeo Montemaggi, Rimini-San Marino ’44, Rimini, 1983.
  • Amedeo Montemaggi, Savignano ’44, Rimini, 1985.
  • Walter Nardini, Cassino, Bad Nauheim, 1975.
  • Mario Puddu, Tra due invasioni. La campagna d’Italia, 1943-45, Roma, 1965.
  • A. Segur-Cabanac, Gefechtsbeispiele aus dem Zweiten Weltkrieg, Wien.
  • von Senger und Etterlin, Combattere senza paura e senza speranza, Milano, 1968.
  • Kurt von Tippelskirch, Geschichte des II Weltkrieges, Bonn, 1951.
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