a cura di Daniele Baggiani
La consegna a Gotica Toscana di una bomba d’artiglieria al fosforo esplosa è stata il punto di partenza di queste note. La storia e gli effetti di questo tipo di ordigni — largamente impiegati dagli Alleati durante la Campagna d’Italia — restano poco noti al grande pubblico, eppure il loro uso fu intenso e dalle conseguenze spesso devastanti: si stima che una bomba d’artiglieria su tre contenesse fosforo bianco. Ma che cosa significa, esattamente, parlare di «bombe al fosforo»?
Il ricordo del fuoco nel Mugello
Ancora oggi, nelle conversazioni tra gli anziani del Mugello — in particolare nelle aree tra Vicchio e Barberino — riaffiorano immagini e sensazioni di quei giorni di settembre 1944 in cui l’artiglieria alleata prendeva di mira il crinale della Linea Gotica per fiaccare le difese tedesche in vista dell’offensiva della V Armata americana, iniziata il 12 settembre 1944. La popolazione civile che viveva a ridosso della linea di fuoco veniva in genere avvertita prima dei bombardamenti: c’era un racconto ricorrente, quasi rituale, che descriveva i «due colpi» iniziali come il segnale dell’imminente temporale di fuoco. I testimoni ricordano che, dopo quei primi spari, il bombardamento proseguiva per ore — spesso almeno due — e che molte delle bombe impiegate erano incendiarie al fosforo.
Questi proiettili erano riconoscibili per il bagliore intenso e per il fumo denso che producevano, ma anche per un fenomeno atmosferico percepibile: il riscaldamento del suolo e dell’aria provocava moti convettivi che gli osservatori descrivevano come un vento caldo e continuo. Era un «vento di guerra», generato non dal tempo ma dalla combustione e dal rilascio di calore su larga scala.
Settembre 1944: una preparazione d’artiglieria senza precedenti
Nella seconda metà di settembre 1944 le montagne tra il Mugello e il Passo del Giogo furono teatro di un’intensa preparazione d’artiglieria, che anticipò lo sfondamento alleato della Linea Gotica. L’artiglieria della 5ª Armata americana, con un ruolo particolarmente attivo delle divisioni 85ª e 91ª, martellò per giorni le posizioni tedesche. In quel contesto venne impiegata una grande quantità di munizionamento speciale, tra cui le granate al fosforo bianco (WP — White Phosphorus).
La recente scoperta sul terreno di alcuni proiettili d’artiglieria inesplosi, recuperati in aree boschive tra Borgo San Lorenzo e San Piero a Sieve, ha fornito evidenze materiali dell’impiego del fosforo bianco. La parte superiore dei bossoli appare sfrangiata e slabbrata: deformazioni tipiche delle altissime temperature sviluppate dal WP al momento dell’esplosione, quando il fosforo si disgrega e genera una nube incandescente. Questi residui, esaminati da esperti e appassionati locali, riaccendono l’interesse su un capitolo poco raccontato — e spesso dimenticato — della guerra sugli Appennini.
Che cosa sono le bombe al fosforo e come funzionano
Le munizioni al fosforo bianco contengono fosforo in una forma che, a contatto con l’aria, si ossida spontaneamente. Questa ossidazione è altamente esotermica: il fosforo bianco si accende rapidamente, bruciando a temperature molto elevate — nell’ordine di 800–1000 °C — e generando sia fiamme vivide sia una densa colonna di fumo bianco. Chimicamente, la combustione produce pentossido di fosforo (P₂O₅), che, a contatto con l’umidità dell’aria, si trasforma in acido fosforico (H₃PO₄); il calore e i prodotti della reazione aggrediscono e disidratano i tessuti organici, con effetti distruttivi sul materiale biologico.
Nel lessico militare statunitense il fosforo bianco è noto con il nome colloquiale di Willy Pete (dalla sigla W.P.). Durante la Seconda guerra mondiale il WP veniva impiegato con una pluralità di intenti tattici: come fumogeno per schermare movimenti e coprire ritirate, come illuminante notturno per evidenziare obiettivi, e come ordigno incendiario per produrre effetti distruttivi su trincee, fortificazioni e materiale combustibile. Le granate e i proiettili WP erano dunque strumenti «multifunzione»: servivano per creare cortine di fumo dense, per segnalare o marcare bersagli all’artiglieria o all’aviazione, e, quando esplodevano in prossimità di obiettivi al suolo, potevano generare incendi difficili da controllare.
È importante ricordare che, al tempo (1944), l’uso del fosforo bianco non era proibito dalle convenzioni internazionali allora vigenti: non era classificato come arma chimica nel senso stretto del diritto bellico contemporaneo, ma come arma incendiaria e fumogena a impiego tattico. Solo in anni successivi le Convenzioni sui mezzi e metodi di guerra hanno iniziato a regolamentare con maggiore rigore le armi incendiarie; oggi l’impiego di WP contro la popolazione civile o in aree densamente abitate è considerato una violazione del diritto umanitario e può configurare un crimine di guerra.
Gli effetti sul corpo e sull’ambiente
Dal punto di vista umano il fosforo bianco si rivela particolarmente terribile. Al contatto con la pelle, le particelle incandescenti si attaccano ai tessuti e continuano a bruciare finché non viene loro a mancare l’ossigeno o finché non sono asfissiate da mezzi adeguati: la combustione può proseguire fino a interessare strati profondi, arrivando talvolta fino all’osso. Le ferite da WP sono caratterizzate da bruciature profonde, multiple e di difficile trattamento; la mortalità legata a tali ustioni, soprattutto in assenza di cure immediate e appropriate, può essere molto elevata.
Il contatto inalatorio o l’ingestione di composti derivati dalla combustione provoca un’intossicazione sistemica da fosforo, con possibili insufficienza epatica e renale, aritmie, convulsioni, e, nei casi più gravi, collasso e morte. Il fumo contiene ossidi irritanti che, reagendo con le mucose respiratorie, possono provocare edema polmonare acuto, difficoltà respiratorie e soffocamento; i danni oculari e alle mucose sono frequenti e possono portare a cecità temporanea o permanente.
Oltre agli effetti diretti sulle persone, il WP lascia sul paesaggio tracce durevoli: incendi boschivi improvvisi, residui incandescenti sulle pareti rocciose, e la dispersione di particelle che possono permanere nel suolo e rappresentare un rischio per la popolazione e gli animali.
L’uso del WP nella campagna d’Italia e la memoria locale
Nella fase definita dalle fonti militari alleate «North Apennines», l’offensiva iniziata il 10 settembre 1944 mirava allo sfondamento della Linea Gotica: le operazioni furono pianificate e condotte nelle settimane che seguirono la liberazione di Firenze, mentre sul settore adriatico proseguivano operazioni cruente come l’Operazione Olive. Nel fronte tirrenico e appenninico, la piana del Mugello e i suoi paesi furono il teatro di una massiccia concentrazione di mezzi e fuoco d’artiglieria, nonché di raid aerei e azioni terrestri nelle valli e sui passi.
Sebbene nelle fonti primarie non sempre sia semplice isolare e documentare in modo puntuale l’impiego di «bombe al fosforo» in singole località come il Mugello nel settembre 1944, le evidenze materiali e la memoria collettiva concordano su un dato: il WP fu usato in forma estesa. Le testimonianze locali conservano immagini forti — notti illuminate da bagliori, fiamme che «si muovevano» come un fluido, incendi nei boschi e residui incandescenti sui muri — e la sensazione che gli attacchi potessero protrarsi per ore. Anche la percezione del «vento» associata alla combustione può essere spiegata con il grande rilascio di calore e con i moti d’aria generati dalla combustione estesa in vallate e ambienti chiusi.
Per la resistenza tedesca, e più in generale per le difese fortificate, le armi incendiarie come il WP erano strumenti utili per «stanare» occupanti di trincee, bunker o cavità naturali: la combustione e il fumo rendevano lo spazio interno invivibile, costringendo spesso i difensori ad abbandonare le posizioni o a subire gravissime perdite. Nelle retrovie della Linea Gotica, gli attacchi con ordigni ad alto potere incendiario contribuirono quindi ad indebolire la rete difensiva e a facilitare l’avanzata alleata.
Da qui l’esigenza di dare spessore alla memoria orale, ai ricordi e ai ritrovamenti sul campo approfondendo la questione dell’impiego del fosforo bianco sugli Appennini da parte degli Alleati che ha lasciato segno sui corpi dei soldati e sul paesaggio devastato dall’artiglieria.

