la Redazione Gotica Toscana aps
Questi testi sono stati elaborati per la Mostra che, con lo stesso titolo, si è tenuta presso Museo Gotica Toscana di Scarperia da giugno a dicembre 2024.
I bombardamenti su Firenze e i danni collaterali: 500 vittime civili
Riconosciuta come città d’arte e di cultura a livello europeo, Firenze ebbe la fortuna di essere risparmiata dalla “guerra totale” da entrambi i contendenti, Tedeschi e Alleati, i quali cercarono di limitare al massimo le devastazioni catastrofiche che invece colpirono altre città come Torino, Milano, Genova e Napoli, solo per citare le più importanti, senza considerare il resto d’Europa. Durante il passaggio del fronte (luglio-agosto 1944), furono evitati pesanti combattimenti cittadini che avrebbero potuto provocare danni incalcolabili, come accadde a Berlino nel 1945. Tuttavia, i Tedeschi rimasero in città e, poiché gli Inglesi si astennero dal metter loro pressione, ciò prolungò la cosiddetta “emergenza” e le sofferenze della popolazione praticamente fino al 1° settembre.
Il prezzo della libertà
In quel periodo operarono in città quasi esclusivamente le formazioni partigiane, che, disponendo solo di armamento leggero e scarso, non costituirono mai una seria minaccia per i soldati della Wehrmacht. I Tedeschi lasciarono Firenze come e quando vollero, per attestarsi successivamente sulla Linea Gotica. Fortunatamente, la stessa moderazione fu adottata anche riguardo all’uso della forza aerea contro la città. Firenze, infatti, non aveva obiettivi strategici di particolare rilevanza, per cui non subì né le “attenzioni” della RAF inglese, famosa per i bombardamenti notturni indiscriminati (area bombing, ovvero bombardamento a tappeto), né quelle della USAAF, l’aviazione strategica americana, che utilizzava i “pesanti” bombardieri B-17 e B-24. Questi ultimi sganciavano bombe da altezze rilevanti (circa 20.000 piedi), causando inevitabili “danni collaterali”. La necessità di bombardare Firenze nacque durante la lunga e sanguinosa battaglia di Cassino, quando tra le misure per scardinare il fronte tedesco si decise di tagliare le vie di rifornimento nemiche che resistevano da mesi.
Nacque così l’operazione “Strangle” (Strangolamento), finalizzata a distruggere le linee ferroviarie e i ponti stradali a nord di Cassino tramite bombardamenti “chirurgici”, si direbbe oggi, condotti da forze aereo-tattiche di provata capacità. Tali operazioni furono affidate al 42° Bomb Wing (BW) della 12ª Air Force USAAF, composto dai gruppi da bombardamento 17°, 319° e 320°, tutti equipaggiati con i bombardieri medi Martin B-26 Marauder. Questi aerei avevano guadagnato la reputazione di “tiratori scelti” operando nel Mediterranean Theatre of Operations (MTO) fin dall’operazione “Torch”, lo sbarco americano in Algeria e Marocco nel novembre 1942. L’operazione “Strangle” iniziò nel marzo 1944 e comportò quattro grosse incursioni mirate alle installazioni ferroviarie fiorentine.
Già molto tempo prima, però, Firenze aveva subito un altro bombardamento tanto inaspettato quanto non pianificato. Il 25 settembre 1943, 39 bombardieri pesanti B-17 del 97° Bomb Group (BG) volarono verso la stazione ferroviaria di Bologna per effettuare un raid “strategico”. Tuttavia, trovando il bersaglio coperto da uno strato nuvoloso compatto, gli aerei si diressero verso obiettivi secondari. Undici B-17 presero di mira Firenze Campo di Marte, dispersero malamente le loro bombe su un’area vasta intorno alla stazione, che subì danni trascurabili. Tuttavia, nei quartieri circostanti morirono 218 fiorentini.
La dottrina americana per l’impiego della forza aerea prevedeva l’attacco di obiettivi militari o di valenza strategica e tattica. Ogni incursione richiedeva precisione assoluta, per evitare di dover ritornare sul bersaglio. I raid dovevano quindi avvenire di giorno, con buona visibilità, utilizzando aerei specializzati e equipaggi addestrati. Dal cielo, un bersaglio appariva con una forma geometrica precisa: per “coprirlo” adeguatamente, si disponeva una formazione d’attacco di uguale forma, con un numero di aerei sufficiente per garantire una concentrazione di bombe letale. La formazione d’attacco era volutamente più ampia rispetto al bersaglio per compensare i margini di errore dei puntatori, origine dei tristemente noti “danni collaterali”. Quando la formazione sorvolava l’obiettivo, tutti gli aerei sganciavano simultaneamente. La responsabilità dell’intera operazione ricadeva sull’ufficiale puntatore dell’aereo di testa. Gli altri puntatori osservavano lo sgancio delle bombe dall’aereo-guida e premendo all’unisono il pulsante, consentivano alle bombe di arrivare quasi contemporaneamente a terra. Questo spiega quella UNICA esplosione avvertita dai rifugiati, una detonazione impressionante e devastante che sembrava interminabile.
Il bombardamento dell’11 marzo 1944
Passarono dunque quasi sei mesi prima che “Strangle” portasse una seconda importante incursione diurna su Firenze, l’11 marzo 44. Questa volta gli obiettivi erano il deposito locomotive appena fuori della Stazione Centrale SMN (che costeggia il primo tratto di Viale Redi) e lo scalo merci di Rifredi, ambedue bersagli ‘puntiformi’ per la tecnologia militare dell’epoca, quando le bombe erano a caduta libera (e non ‘intelligenti’ come oggi) e un bersaglio di due o tre ettari da centrare da una quota di circa 9.000 piedi (2.700 metri) appariva appunto ‘puntiforme’. All’attacco parteciparono i B-26 di tutti e tre i BG del 42° BW basati in quel periodo in Sardegna; a Villacidro il 17° e a Decimomannu il 319° e il 320°. Le “intelligence narrative” (i rapporti di missione redatti dall’ufficio informazioni di Gruppo sulla base dei resoconti di tutti gli equipaggi coinvolti) stilate in originale sono state conservate integralmente solo dal 320° BG. Quelle del 319°e ancora meno quelle del 17° non sono altrettanto disponibili. E’ dunque documentato che il 320° si occupò dello scalo merci di Rifredi, centrando perfettamente l’intero fascio di binari e circa 200 carri merci in sosta (“intelligence narrative” No. I63), mentre il 319° colpì altrettanto efficacemente il deposito locomotive adiacente a FS SMN, bersaglio ancora più impegnativo in quanto assai vicino al centro storico. Per questo il BG si guadagnò una DUC ( Distinguished Unit Citation). Mancano invece il dettagli sull’azione del 17°.
Per esemplificare le procedure di attacco di questi BG, che erano uguali per tutti, ci si deve riferire a quanto registrato nella “intelligence narrative No.I63” del 320° BG che è giunta integra fino a noi. Dunque, trentasei B-26 del 320° BG decollarono da Decimomannu alle 8.20 dell’ 11 Marzo. Uno tornò indietro per problemi ai motori; cosicché 35 arrivarono sullo scalo merci FS Rifredi alle 10:55, quota 8.700 piedi (2.650 metri). Di questi, 31 sganciarono 248 bombe dirompenti da 500 libbre (circa 225 kg, di cui circa 120 di esplosivo), mentre gli altri 4 aerei trattennero il carico per non rischiare di colpire il vicino ospedale di Careggi. Giusto, perché il “bomb run”, la corsa di avvicinamento al bersaglio, avvenne su rotta 75° proprio in linea con il retrostante ospedale!!! I quattro B-26 sulla via del ritorno sganciarono poi le loro 32 bombe sul ponte ferroviario di Cecina alle 11:15 da 7.500 piedi (2.300 metri). Trenta apparecchi rientrarono alle 13:15 e i restanti dalle 15:00 alle 17:00, essendosi fermati in Corsica a “fare benzina”. Nel rapporto, oltre a una dettagliatissima lista di quanto osservato a terra, strada facendo, (autocarri, treni, fabbriche in funzione, imbarcazioni in mare ecc.) c’è l’intera composizione della formazione, aereo per aereo, nonché i nomi dei membri di ogni equipaggio dal pilota al mitragliere di coda! Il 319° BG, che aveva il difficile obiettivo di colpire le locomotive radunate poche centinaia di metri fuori della stazione FS SMN, usò presumibilmente lo stesso numero di aerei e di bombe. La formazione arrivò allo sgancio pochi minuti prima del 320°; e di questo chi scrive fu testimone diretto, abitando, al tempo, a non più dị 300 metri dal bersaglio.
11 marzo 1944, io c’ero…
Tutte le dieci famiglie dello stabile erano stipate a lume di candela nel “rifugio casalingo”, un ambiente angusto e opprimente che sarebbe stato sepolto dalle macerie nel caso l’edificio fosse stato colpito. La salvezza era affidata all’UNPA (Unione Nazionale Protezioni Antiaeree) e ai suoi “potenti mezzi” fatti di pale, picconi e forza di braccia. Al rombo fortissimo di una settantina di motori P&W R-2800 da 1850 cavalli ciascuno, seguì il solito sibilo delle bombe in arrivo. Poi, una UNICA, gigantesca esplosione, generata da circa 30.000 kg di esplosivo, scosse il rifugio per 10-15 interminabili secondi, facendo mancare letteralmente la terra sotto i piedi. Le candele si spensero per lo spostamento d’aria, il locale si riempì di polvere bianca e soffocante, intonaco staccatosi dalle pareti. Quando qualche candela fu riaccesa, una seconda esplosione, meno violenta ma altrettanto spaventosa, risuonò nell’aria: era lo sgancio lontano su Rifredi. Al suono del cessato allarme, i rifugiati si affacciarono alla pesante porta di cemento del rifugio per constatare, con sollievo, che il palazzo era ancora in piedi. Tuttavia, la fortuna non arrise ad altri edifici vicini: via Cassia, Piazza San Jacopino, via Cristofori, via Rossini e via Benedetto Marcello riportarono danni devastanti. La costruzione crollata più vicina fu Villa Flora in via Rossini, una casa di cura, che crollò seppellendo una ventina di pazienti, medici e infermieri. Questo fu uno dei drammatici “danni collaterali” causati dalla distruzione totale del bersaglio prefissato.
Terminata l’incursione aerea, il capo-famiglia pronunciò con fermezza: “Lontano dalle rotaie!”. Il bombardamento aveva reso chiaro che le linee ferroviarie erano bersagli primari, e la famiglia decise di sfollare a San Colombano, nei pressi di Firenze verso Signa, lontano dalle aree più colpite. Da quella posizione di sicurezza, il 23 marzo 1944, assistettero al secondo grande bombardamento delle installazioni ferroviarie di Firenze, un attacco che ribadì la strategia Alleata di spezzare le linee di rifornimento tedesche a costo di ulteriori distruzioni e perdite civili. La guerra aerea continuava a stravolgere la città, portando con sé devastazione e sofferenza, ma anche la speranza che ogni bomba sganciata potesse accelerare la fine del conflitto e la liberazione definitiva di Firenze.
23 marzo 1944: bombardata la Stazione di Campo di Marte
Anche in questa incursione parteciparono tutti e tre i Bomb Group (BG) coinvolti. Tuttavia, per esemplificare l’azione nei dettagli, useremo la “Intelligence Narrative” No. 172 del 320° Bomb Group, che offre una descrizione completa e puntuale dell’operazione. La missione ebbe inizio alle 8:55, quando ventotto bombardieri B-26 Marauder del 320° BG decollarono con destinazione lo scalo merci di Campo Marte. Quattro di questi velivoli erano assegnati come “riserve” e, non essendo necessarie, tornarono indietro. Di conseguenza, ventiquattro aerei giunsero puntualmente sul bersaglio alle 11:40, dove sganciarono 182 bombe da 500 libbre (circa 226 kg ciascuna), di cui tre a scoppio ritardato, da una quota compresa tra 9.000 e 9.400 piedi (circa 2.700-2.900 metri). L’azione fu precisa e devastante: il bersaglio fu centrato in pieno, con la distruzione dello scalo merci, inclusi circa 120 carri ferroviari e della passerella pedonale che attraversava i binari. Quest’ultima, oggi ricostruita nello stesso punto, rappresenta una testimonianza tangibile di quell’episodio. Naturalmente, qualche “danno collaterale” non mancò: edifici in Piazza Alberti e in via Campo D’Arrigo subirono distruzioni parziali a causa di bombe che caddero leggermente fuori bersaglio. Contemporaneamente, anche gli altri due Bomb Group, operativi nella stessa missione, contribuirono con ulteriori circa 350 bombe sganciate sull’obiettivo. Complessivamente, furono rilasciate oltre 500 bombe sullo scalo ferroviario, che fu completamente demolito. I ventiquattro bombardieri del 320° BG rientrarono alla base indenni alle 13:30, completando con successo una delle operazioni più significative nell’ambito della campagna di distruzione delle infrastrutture ferroviarie italiane, una strategia chiave per indebolire la capacità logistica dell’esercito tedesco.
Inizio Maggio: bombardata Porta al Prato
Il 1° maggio 1944, i tre Bomb Group (BG) concentrarono i loro sforzi sullo scalo ferroviario e sulle importanti Officine Riparazioni di Porta al Prato, con alcune incursioni marginali su Campo Marte e Rifredi per completare il lavoro iniziato nei giorni precedenti. Ci riferiamo in particolare alle “Intelligence Narrative No. 197, 198 e 199” del 320° BG. Alle 9:40, ventisette B-26 Marauder decollarono per bombardare le installazioni ferroviarie di Porta al Prato (“Florence Southwest M/Y”). Due velivoli di riserva e uno con avaria tornarono alla base, lasciando ventiquattro aerei ad eseguire la missione. L’operazione fu piuttosto complessa: l’attacco si sviluppò in tre “bomb runs” consecutivi, eseguiti alle 11:53, alle 11:58 e alle 12:03 su rotte differenti (50°, 230° e 80°) da un’altitudine compresa tra 9.400 e 10.000 piedi. Nel primo passaggio, undici B-26 sganciarono 88 bombe dirompenti da 500 libbre, mentre altri undici rilasciarono 218 spezzoni incendiari da 100 libbre. Il primo “run” vide cadere 88 bombe dirompenti e 60 spezzoni incendiari, il secondo 40 spezzoni incendiari e il terzo 18 spezzoni incendiari. Un aereo, non trovandosi nella posizione ideale per il lancio, riportò indietro le sue 8 bombe. Alle 13:45, tutti i ventiquattro velivoli rientrarono alla base. A causa della copertura nuvolosa (8/10), la precisione fu scarsa. Molte bombe caddero fuori bersaglio, colpendo aree come via Il Prato, dove uno spezzone incendiò il portone del “brindellone” (il carro dello Scoppio del Carro), e il Teatro Comunale, che subì la demolizione di parte del palcoscenico. Inoltre, un documento aggiuntivo, un “Confirming Mission Report” del 34° Bomb Squadron (17° BG), confermò che nove B-26 decollarono alle 9:15 per Porta al Prato. Tuttavia, giunti alle 11:30, trattennero il loro carico a causa della copertura nuvolosa e sganciarono infine le bombe su un obiettivo secondario non identificato.
A causa dei risultati insoddisfacenti del giorno precedente, fu programmata una seconda missione immediata per il 2 maggio 1944. Il 320° BG lanciò due missioni ravvicinate, descritte come “ondate successive”. La prima ondata partì alle 12:45 con ventisei B-26, ridotti a ventitré dopo che tre aerei rientrarono come riserve. Alle 13:25 seguì la seconda ondata di ventisette aerei, ridotti a ventiquattro per le stesse ragioni. I primi ventitré velivoli arrivarono sul bersaglio alle 15:00, sganciando 176 bombe da 500 libbre da un’altitudine compresa tra 9.100 e 9.700 piedi, lungo una rotta di 35°. Questa volta il bersaglio fu centrato in pieno, con la distruzione della maggior parte delle Officine Riparazioni e di circa 150 carri ferroviari. Solo mezz’ora dopo, alle 15:40, la seconda ondata completò il lavoro sganciando 88 bombe da 500 libbre, 140 bombe da 100 libbre e 100 spezzoni incendiari. Gli aerei della prima ondata rientrarono alle 16:45, mentre quelli della seconda ondata atterrarono alle 17:35. Anche il 34° Bomb Squadron del 17° BG inviò nove B-26 alle 12:50, che giunsero alle 18:10. Sei di questi sganciarono 46 bombe da 500 libbre, mentre i restanti tre riportarono il carico alla base, fatta eccezione per due bombe, scaricate in mare a causa di guasti al sistema di sgancio.
Il 2 maggio 1944 segnò la completa distruzione delle installazioni ferroviarie di Porta al Prato, che non furono più riattivate fino alla fine della guerra. Gli incendi provocati dalle bombe divamparono per giorni, lasciando un segno indelebile sulla città. Con questa missione si conclusero le grandi incursioni aeree su Firenze, che avevano colpito con forza obiettivi strategici come scali ferroviari e infrastrutture vitali, ma causando inevitabilmente danni collaterali nei quartieri circostanti. Le operazioni aeree su Firenze, pur devastanti, rientravano in una strategia più ampia mirata a spezzare la logistica tedesca e preparare il terreno per l’avanzata degli Alleati verso nord, in vista della successiva battaglia sulla Linea Gotica.
In tutto, i raid aerei causarono circa 500 vittime civili.
Firenze dichiarata “città aperta”
Ai primi di luglio 1944, Firenze fu dichiarata dai tedeschi “città aperta”, seguendo quanto già accaduto con Roma. Questo status, previsto dalle convenzioni internazionali, implicava che l’occupazione della città da parte degli Alleati non avrebbe incontrato resistenza. L’articolo 25 dei Regolamenti sulla Guerra Terrestre dell’Aia (1899 e 1907) lo stabiliva chiaramente: “È proibito attaccare o bombardare, con qualunque mezzo, città, villaggi, abitazioni e navi che non siano difese”. Tuttavia, questa condizione restò solo teorica. Gli Alleati non accettarono mai ufficialmente lo status di città aperta, e i tedeschi, dal canto loro, si sentirono giustificati a non rispettare l’impegno preso. Il 30 luglio, questa posizione fu ribadita dal Colonnello Fuchs, comandante della piazza, che incontrò una delegazione di notabili fiorentini in cerca di rassicurazioni sul futuro della città. La risposta fu inequivocabile: non ci sarebbero state garanzie. Firenze, dunque, sarebbe diventata teatro di guerra come qualsiasi altra città strategica.
I giorni seguenti furono segnati da feroci combattimenti urbani. I cecchini sparavano su chiunque si avventurasse per le strade, e molti quartieri divennero teatro di scontri casa per casa. L’artiglieria tedesca, posizionata sulle alture a nord della città, colpì il centro storico con bombardamenti incessanti, causando vittime e danni estesi. Inoltre, durante la ritirata, i tedeschi disseminarono mine un po’ ovunque, che continuarono a mietere vittime tra i civili anche dopo la fine delle battaglie. Le perdite umane furono pesanti: più di 800 fiorentini persero la vita durante il passaggio del fronte. La popolazione visse giorni di terrore, con la città trasformata in un campo di battaglia in cui ogni angolo rappresentava un pericolo.
I danni inflitti al patrimonio artistico di Firenze furono immensi. Secondo una stima accurata effettuata nel 1946, le perdite ammontarono a quasi mezzo miliardo di lire dell’epoca, un costo incalcolabile per la città d’arte. Complessivamente, includendo le residenze private, le industrie e le infrastrutture, i danni furono stimati in 30 miliardi di lire, una somma straordinaria per il periodo e simbolo della devastazione subita. Firenze, nonostante il suo inestimabile valore culturale, non fu risparmiata dalla guerra. Le promesse di protezione e amore per la città rimasero parole vuote, mentre le ferite materiali e morali lasciarono segni profondi nella popolazione e nel tessuto urbano.
La distruzione dei ponti
Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1944, alcune violente esplosioni fecero tremare la città. All’alba, i fiorentini poterono constatare con orrore la distruzione degli antichi ponti sull’Arno. Firenze, famosa per le sue opere d’ingegneria medievale e rinascimentale, vide i suoi ponti ridotti a cumuli di macerie fumanti. Soltanto il Ponte Vecchio fu risparmiato, ma a caro prezzo: tutte le costruzioni lungo le sue vie d’accesso, comprese Por Santa Maria, via dei Bardi, Borgo San Jacopo e via Guicciardini, furono fatte saltare in aria.La decisione di distruggere i ponti fu presa dai tedeschi con l’intento di rallentare l’avanzata degli Alleati. Tuttavia, il Ponte Vecchio fu risparmiato per volontà diretta di Adolf Hitler, che lo aveva ammirato personalmente nei suoi viaggi in Italia nel 1938 e nel 1940, e grazie all’intercessione del console tedesco Gerhard Wolf, che nel dopoguerra ricevette la cittadinanza onoraria di Firenze per aver contribuito a questa decisione. I genieri incaricati delle demolizioni accolsero favorevolmente questa scelta: il Ponte Vecchio, con la sua solida struttura e le numerose botteghe addossate, sarebbe stato difficile e dispendioso da distruggere. Inoltre, i detriti avrebbero potuto formare un ponte naturale sul fiume, facilitando invece di ostacolare l’attraversamento.
L’ordine di distruggere i ponti giunse il 31 luglio 1944. Furono incaricati delle operazioni i genieri paracadutisti del Fallschirm Pionier Abteilung 4, appartenenti alla 4ª Divisione Paracadutisti. Le cariche utilizzate consistevano in casse di esplosivo, alcune con la forma di grandi pentole semicircolari del peso di 70 x 50 x 30 cm, piene di tritolo, e persino testate esplosive di siluri navali. I civili residenti nelle aree coinvolte furono fatti sgomberare il 29 luglio. Durante la posa delle cariche, il 3 agosto, i genieri tedeschi subirono attacchi da forze partigiane al Ponte alla Vittoria e al Ponte alla Carraia. I patrioti, ben informati delle intenzioni nemiche, tentarono disperatamente di salvare i ponti, ma dovettero ritirarsi sotto la decisa reazione tedesca. Le demolizioni iniziarono alle 22:00 del 3 agosto e procedettero per tutta la notte. Il Ponte alle Grazie fu il primo a saltare, seguito a mezzanotte dal Ponte Santa Trinita. Nelle quattro ore successive crollarono, nell’ordine, il Ponte alla Carraia, il Ponte San Niccolò e il Ponte alla Vittoria. Infine, verso le 4:00 del mattino, furono fatte esplodere le costruzioni adiacenti al Ponte Vecchio, che rimasero un cumulo di rovine. Nei giorni successivi, tra le macerie furono posate centinaia di mine, che causarono numerose vittime, soprattutto tra i civili che tentavano di recuperare beni o attraversare l’Arno. Per alcuni giorni, l’unico collegamento tra le due parti della città fu il Corridoio Vasariano, rimasto integro. Questo passaggio fu utilizzato dai partigiani per mantenere i collegamenti operativi.
Dal punto di vista strategico, la distruzione dei ponti fu considerata un’operazione riuscita dai tedeschi, che riuscirono a rallentare l’avanzata alleata di circa dieci giorni. Gli ingegneri inglesi, tuttavia, risposero rapidamente: il 15 agosto, completarono la posa dei ponti Bailey prefabbricati sui pilastri del Ponte Santa Trinita. Allo stesso tempo, grazie alla magra del fiume, la pescaia di San Niccolò divenne un attraversamento pedonale efficace. Il Ponte Vecchio, liberato dalle mine e dalle macerie, fu ripristinato velocemente per l’uso pedonale e per il passaggio di mezzi leggeri trainati a mano. I ponti distrutti furono ricostruiti nel dopoguerra con tecniche moderne, in alcuni casi utilizzando parti originali recuperate tra le macerie. Tuttavia, molti edifici adiacenti al Ponte Vecchio, ricostruiti dopo la guerra, non rispettarono quasi mai lo stile antico. I danni della guerra rimangono visibili ancora oggi come cicatrici indelebili nel cuore di Firenze, monito di uno dei periodi più bui della sua storia.
L’occupazione tedesca e le sofferenze della popolazione
La guerra si avvicina a Firenze
Nel luglio del 1944, Firenze viveva gli ultimi momenti di una lunga sofferenza iniziata con l’entrata in guerra dell’Italia. Razionamenti, oscuramento e bombardamenti avevano già segnato la vita quotidiana dei fiorentini, aggravata dalla perdita di cari partiti per il fronte. La situazione si fece ancora più drammatica con l’arrivo delle truppe tedesche, che ordinarono, il 29 luglio, lo sgombero delle abitazioni lungo le rive dell’Arno. L’ordine costrinse 150.000 persone a lasciare le proprie case, spesso senza alcun rifugio alternativo. Il giorno successivo, i tedeschi distrussero la centrale elettrica e, il 30 luglio, danneggiarono l’acquedotto, lasciando la città senz’acqua. Nonostante l’intervento eroico dei partigiani a Mantignano, che impedirono ulteriori distruzioni, l’acqua rimase razionata e disponibile solo presso le fontane pubbliche, accessibili esclusivamente alle donne e in orari prestabiliti. Il rischio di essere colpiti dai tedeschi era altissimo, e molti, in preda alla disperazione, arrivarono a bollire l’acqua piovana raccolta nei cortil
La ritirata tedesca e le devastazioni
Durante la ritirata, le truppe tedesche seminavano distruzione e terrore. Furono numerosi i saccheggi e gli episodi di violenza contro la popolazione civile, inclusi stupri e uccisioni sommarie. L’artiglieria tedesca, posizionata sulle alture di Fiesole e Monte Morello, iniziò a bombardare indiscriminatamente i quartieri già liberati, colpendo prima l’Oltrarno e poi il centro storico. A Careggi, circa 3.000 persone rimasero intrappolate nella linea del fronte, senza cibo né acqua, esposte al fuoco incrociato. Quando i combattimenti terminarono, Firenze pagò un prezzo altissimo: almeno 600 morti civili e 2.000 feriti, a cui si aggiunsero i 500 morti dei bombardamenti precedenti. La città, devastata fisicamente e moralmente, si trovò di fronte alle ferite profonde inflitte dalla guerra.
I cecchini fascisti e la reazione partigiana
L’azione dei franchi tiratori fascisti
Nel caos della battaglia, un ruolo tragico fu svolto dai cecchini fascisti, organizzati da Alessandro Pavolini, segretario del Partito Fascista Repubblicano e comandante delle Brigate Nere. Reclutati tra ragazzi giovanissimi (tra i 14 e i 18 anni), spesso inesperti e di umili origini, i tiratori vennero posizionati in punti strategici della città. Equipaggiati con fucili di precisione italiani e tedeschi, sparavano indiscriminatamente su civili, partigiani e soldati alleati. Per garantire la loro sopravvivenza, i fascisti avevano predisposto percorsi di fuga attraverso tetti e fogne, che permettevano loro di ritirarsi verso le linee tedesche una volta esaurite le munizioni. Nonostante la loro giovane età e scarsa esperienza militare, causarono numerose vittime tra i cittadini fiorentini, esasperando ulteriormente la tensione in una città già devastata dalla guerra.
La reazione partigiana e il culmine della violenza
La risposta dei partigiani fu immediata e durissima. I cecchini catturati, percepiti come una minaccia immediata, furono spesso giustiziati sul posto, senza processo e privati delle protezioni riservate ai prigionieri di guerra dalle convenzioni internazionali. Uno degli episodi più noti fu la fucilazione di dodici cecchini fascisti sul sagrato di Santa Maria Novella. Curzio Malaparte, nel suo romanzo “La pelle”, ne offre una descrizione toccante: “I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni… Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, era quasi un bambino.” Questi episodi, pur motivati dall’urgenza e dalla brutalità del conflitto, sollevano ancora oggi dibattiti storici ed etici. Lo storico Claudio Pavone, nel suo saggio “Una guerra civile”, parla di una “moralità di guerra”, in cui ogni atto di violenza viene giustificato dalla lotta per la sopravvivenza e per la liberazione della patria. La reazione partigiana, seppur necessaria nel contesto bellico, rappresenta una delle pagine più controverse della Resistenza italiana.
Questi episodi, pur motivati dall’urgenza e dalla brutalità del conflitto, sollevano ancora oggi dibattiti storici ed etici. Lo storico Claudio Pavone, nel suo saggio “Una guerra civile”, parla di una “moralità di guerra”, in cui ogni atto di violenza viene giustificato dalla lotta per la sopravvivenza e per la liberazione della patria. La reazione partigiana, seppur necessaria nel contesto bellico, rappresenta una delle pagine più controverse della Resistenza italiana.
La liberazione di Firenze e il sacrificio dei partigiani
La lotta nei quartieri e la morte di Aligi Barducci
Le brigate partigiane, coordinate dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), giunsero a Firenze il 3 agosto 1944 e si scontrarono con le ultime resistenze tedesche e fasciste nei quartieri dell’Oltrarno. I tentativi di salvare i ponti sull’Arno fallirono quasi del tutto a causa della loro distruzione da parte dei tedeschi, che impedirono ogni avanzata in campo aperto. La mancanza di munizioni e l’ostinata difesa tedesca resero la battaglia particolarmente difficile. In questo contesto, si distinse la figura di Aligi Barducci, comandante della Divisione Garibaldi-Arno, detto “Potente”. Il 7 agosto, mentre dirigeva le operazioni in Piazza Santo Spirito, Barducci fu colpito mortalmente da una granata tedesca. Trasportato d’urgenza all’ospedale da campo di Pian dei Giullari, morì all’alba dell’8 agosto. In suo onore, la Divisione fu ribattezzata “La Potente”, un tributo al coraggio e alla leadership del comandante.
L’11 agosto, l’insurrezione
L’11 agosto 1944, alle prime luci dell’alba, il suono della Martinella di Palazzo Vecchio segnò simbolicamente l’inizio dell’insurrezione popolare. Coordinati dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), i partigiani, con il supporto della popolazione civile, diedero il via a un’offensiva contro le ultime sacche di resistenza tedesca. I combattimenti iniziarono nei quartieri dell’Oltrarno, dove i partigiani cercarono di attraversare l’Arno per spingere le truppe nemiche verso nord. Contemporaneamente, gruppi organizzati liberarono intere zone della città, mentre i tedeschi opponevano una resistenza organizzata e metodica, coprendo la loro ritirata con l’artiglieria pesante posizionata sulle colline circostanti. Le linee difensive tedesche lungo il Mugnone e le arterie principali rendevano difficile il progresso dei partigiani, che, nonostante l’armamento leggero e le scarse risorse, riuscirono ad avanzare grazie al coraggio e alla conoscenza del territorio. Nel frattempo, il CTLN assumeva il controllo amministrativo della città, insediandosi a Palazzo Medici Riccardi, e proclamava l’insurrezione generale.
La fine dei combattimenti e la Liberazione di Firenze
Nonostante l’insurrezione dell’11 agosto, i combattimenti a Firenze continuarono per diverse settimane. I tedeschi, stabilendo linee difensive nei quartieri settentrionali e lungo le colline circostanti, ripiegarono con ordine, ostacolando l’avanzata partigiana e degli Alleati. I quartieri di Rifredi, Careggi, Le Cure e Campo di Marte furono teatro di scontri feroci, mentre l’artiglieria tedesca continuava a colpire indiscriminatamente il centro storico e le zone già liberate, causando ulteriori distruzioni e vittime. La linea di ritirata tedesca si spostò progressivamente verso Monte Morello, Montesenario e Fiesole, dove le ultime postazioni difensive resistettero fino a fine agosto. Solo il 1° settembre Fiesole fu liberata, e nei giorni successivi, il 7 settembre, le truppe tedesche abbandonarono definitivamente Monte Morello e le colline circostanti, ponendo fine ai combattimenti. La liberazione di Firenze fu completata, ma il bilancio fu devastante: oltre 205 partigiani morti, 18 dispersi e più di 400 feriti solo in città. L’intera provincia pagò un tributo altissimo, con oltre 1.500 patrioti caduti tra battaglie, rappresaglie e deportazioni. Firenze, finalmente libera, portava però profonde cicatrici, simbolo del sacrificio e della tenacia di una città che aveva lottato strenuamente per la propria libertà.