di Daniele Baggiani
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Ottant’anni d’oblio
La vicenda degli Internati Militari Italiani – Italienische Militärinternierte, secondo la definizione imposta dal Terzo Reich ai soldati italiani che si rifiutarono di combattere per la Weharmacht dopo l’8 settembre 1943 – è una ferita ancora aperta nella memoria del Novecento. Per ottant’anni, il gesto radicale di oltre 850.000 soldati del Regio Esercito che dissero no al fascismo e alla collaborazione con il nazismo, accettando la deportazione nei campi di lavoro[1], è rimasto ai margini del discorso pubblico. Una pagina rimossa che oggi finalmente è stata ricollegata alla ‘resistenza’.
L’assenza degli IMI dalla Resistenza istituzionalmente intesa[2] ha radice nella cultura politica della Prima Repubblica. Il discorso antifascista militante, infatti, ha privilegiato la lotta armata, oscurando la dissidenza disarmata. La sinistra ha stentato a includere gli IMI nella costellazione resistenziale poiché estranei al paradigma partigiano; la destra, invece, ha eluso oltremodo ogni confronto con la scelta dei soldati italiani di non combattere per Mussolini e Hitler in quanto indice del netto rifiuto opposto al fascismo dalle Forze Armate.
Una svolta si è verificata negli anni Novanta con le ricerche di Gerhard Schreiber, che per primo costruito intorno agli IMI un profilo storiografico autonomo. A questa nuova stagione si sono poi affiancate le riflessioni di autori come Nicola Labanca e Alessandro Natta, le quali hanno contribuito ad ampliare il campo d’indagine. La riflessione è proseguita nel XXI secolo con i lavori di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che hanno sistematizzato le fonti e il significato politico del rifiuto collettivo all’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana[3].
Oggi, nonostante una maggiore attenzione editoriale (e memoriale), il posto degli IMI nella coscienza pubblica resta incerto. Iniziative internazionali come quelle del Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit (Centro di Documentazione sul Lavoro Forzato Nazista) di Berlino sono state importanti[4]; come allo stesso modo l’accesso a raccolte epistolari, come, ad esempio, le Lettere dagli stalag[5], che hanno dato dignità alla sofferenza di migliaia di soldati che scelsero di non combattere contro gli Alleati arrendendosi all’occupante nazista.
Nel corso dei venti mesi di prigionia, gli IMI furono ripetutamente sottoposti a pressioni per arruolarsi. Circa 103.000 cedettero: 23.000 aderirono nell’autunno del 1943, altri 19.000 confluirono successivamente nelle divisioni fasciste della Repubblica Sociale Italiana, mentre 61.000 vennero assegnati a reparti ausiliari della Wehrmacht e della Luftwaffe entro il gennaio 1945. La maggioranza – oltre mezzo milione – rifiutò ogni collaborazione. La loro destinazione fu il lavoro coatto in condizioni brutali nelle miniere, nelle fabbriche, nei cantieri e nei campi agricoli del Reich, tra fame, malattie, umiliazioni e bombardamenti alleati. Il piano di Mussolini nei confronti degli IMI per lusingarli con migliori condizioni di vita e rimpolpare così i ranghi dell’Esercito Nazionale Repubblicano fallì miseramente, come opportunamente sottolinea in maniera documentata Mimmo Franzinelli in più luoghi del suo importante lavoro intitolato, non a caso, Schiavi di Hitler[6].
Una segregazione giuridica
All’annuncio dell’armistizio l’8 settembre 1943, oltre un milione di militari italiani si trovavano dislocati fuori dal territorio nazionale, in Grecia, nei Balcani, in Francia, in Germania e persino nei territori dell’ex Unione Sovietica. Le comunicazioni furono caotiche, gli ordini contraddittori o inesistenti. La macchina militare si sfaldò nel giro di poche ore. In molte guarnigioni, i comandi superiori fuggirono o si resero irreperibili, lasciando i reparti senza indicazioni. Di fronte all’avanzata tedesca, già predisposta nei dettagli, centinaia di migliaia di soldati furono facilmente disarmati e catturati senza combattere[7]. È la storia di tanti.
Il Terzo Reich decise di non riconoscere ai soldati italiani catturati dopo l’armistizio lo status di prigionieri di guerra, classificandoli altrimenti con la nuova formula di Italienische Militärinternierte (IMI). Una categoria giuridicamente ambigua che li escludeva dalle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra. Una delle violazioni più gravi del diritto internazionale perpetrate dal Terzo Reich nei confronti dell’Italia cobelligerante. Si trattò di una scelta deliberata, che permise alla Germania di sottrarsi agli obblighi internazionali e di disporre liberamente di centinaia di migliaia di uomini come forza lavoro coatta nei settori industriali, agricoli e infrastrutturali del Reich[8].
La categoria degli IMI fu un atto di esclusione giuridico e simbolico. I militari italiani cessarono di essere soldati, non furono considerati civili, né formalmente prigionieri. La decisione fu politica. Le motivazioni punitive. Agli occhi dei nazisti, infatti, l’Italia aveva tradito il patto d’acciaio. E gli IMI ne divennero il capro espiatorio. La loro neutralizzazione giuridica rappresentò così la sanzione simbolica per il “tradimento” del 1943, che nei fatti si tradusse in una sottomissione silenziosa senza diritti.
La scelta degli IMI, variamente motivata dalla fedeltà allo stato monarchico, da istanze etiche o religiose, o dal rigetto del fascismo, fu una scelta collettiva maturata su base individuale; non fu guidata da partiti o da ordini superiori. Fu una forma di resistenza, un atto morale, che si espresse in forma collettiva e radicale, il quale è stato riconosciuto dalla storiografia più recente come la più vasta forma di dissidenza spontanea nella storia d’Italia[9].
Geografia e condizioni dell’internamento
Centinaia di migliaia di militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 furono dispersi in una fitta rete di oltre mille luoghi di prigionia dislocati su tutto il territorio del Terzo Reich, con prevalenza in Germania e in Polonia. Le strutture principali erano identificate dalla sigla Stalag (Stammlager), riservata alla truppa, e Oflag (Offizierslager), destinata agli ufficiali. Tuttavia, gli internati non vi rimasero a lungo: furono presto suddivisi in piccoli distaccamenti di lavoro – i cosiddetti Arbeitskommandos – dipendenti dai lager centrali ma dislocati presso miniere, cave, industrie belliche, cantieri ferroviari o aziende agricole[10].
Le destinazioni non erano scelte in modo casuale, ma seguivano le direttrici dell’industria bellica, con picchi presso gli snodi ferroviari e i poli minerari. La mappa dell’internamento rifletteva la geografia economica del Reich, caratterizzata dalla concentrazione dell’industria pesante nella Germania centrale (Krupp, Siemens, Volkswagen, IG Farben) e da una rete di snodi logistici nei territori orientali e meridionali, fino alla Renania e all’Alta Slesia.
La mappa dei campi di prigionia IMI in Germania
La Ruhr e la regione di Lipsia-Halle sono emblematiche. Gli IMI lavoravano in acciaierie, fabbriche di armamenti e centrali elettriche. Il loro impiego avvenne senza alcun riguardo, guidato solo dal principio efficientista dello sfruttamento intensivo di risorse umane. Non uomini e neppure animali, solo pezzi di ricambio senz’anima. La logica dell’internamento non seguiva criteri uniformi. La destinazione degli IMI era determinata da molteplici fattori: la data e il luogo della cattura, la specializzazione militare, ma soprattutto le mutevoli esigenze produttive del Reich. Le condizioni ambientali e di vita erano ovunque dure, ma differivano sensibilmente da campo a campo, in base alla funzione assegnata, alla localizzazione geografica e al grado di sfruttamento imposto. Nei pressi dei grandi centri industriali l’aria era contaminata da sostanze chimiche; nei lager rurali, invece, la mancanza di riscaldamento e d’indumenti adeguati conduceva a frequenti congelamenti[11].
Tra i luoghi di internamento tristemente più noti si segnalano Wietzendorf, riservato agli ufficiali italiani; Sandbostel, famoso per le condizioni igienico-sanitarie disastrose e l’elevata mortalità dovuta a dissenteria e tifo; Altengrabow, tra i più antichi, attivo già nella Prima guerra mondiale; Zeithain, in Sassonia, dove testimoni italiani riferirono l’impiego di vaccini sperimentali su prigionieri affetti da malattie infettive, con conseguenze letali[12]; e Luckenwalde – STALAG III-A – a sud di Berlino, campo da oltre 16.000 IMI, sede di un ospedale militare e di un’esperienza unica di resistenza culturale: la pubblicazione clandestina del giornale La Baracca[13]. Tremendo era il campo di Mittelbau-Dora. Annesso al complesso concentrazionario di Buchenwald, era destinato alla produzione sotterranea dei razzi V2. I prigionieri, fra cui centinaia di IMI, venivano calati ogni giorno nelle gallerie sotterranee di Nordhausen, costretti a lavorare fino a 16 ore consecutive senza luce naturale, in ambienti saturi di polvere metallica. Le gallerie, scavate nel basalto, crollavano frequentemente e l’umidità favoriva malattie polmonari incurabili. Tanti internati morirono sotto le macerie, altri di stenti o per pestaggi da parte dei sorveglianti SS. Tanti altri morirono di freddo o fucilati collettivamente per ogni loro minimo atto di protesta[14].
Se nei lager principali l’organizzazione era più strutturata, ciò non significava affatto maggiore umanità. Gli internati non erano considerati uomini ma ‘pezzi di ricambio’, Inventarisierte Stücke, espressione con cui nei documenti amministrativi i tedeschi si riferiscono agli internati nei campi, ridotti a numeri di matricola. Non diversamente, nei piccoli Kommando, la durezza del lavoro si sommava all’isolamento e alla vulnerabilità. Nel lavoro forzato negli stalag e nelle fabbriche, gli IMI furono sottoposti alla dura legge del rendimento, utilizzati come lavoratori nell’industria degli armamenti e nelle miniere, in violazione del diritto internazionale. Fu questa la punizione riservata agli ‘italiani traditori’, attuata su ordine diretto di Hitler. Lavoro, fame e malattie segnarono la vita quotidiana degli IMI ai lavori forzati. La loro dieta era basata sulle prestazioni, dando luogo a un circolo vizioso che uccise intorno al 12% dei prigionieri. In migliaia morirono di stenti.
Secondo Federico Goddi, la condizione degli IMI migliorò complessivamente un poco dopo la ‘civilizzazione’ imposta dai tedeschi tra l’agosto e il settembre 1944, che trasformò gli internati in lavoratori volontari.
Fuori dai campi […] gli Imi vivevano di lavoro forzato in condizioni che variavano a seconda delle mansioni: le situazioni peggiori erano nelle miniere, nell’industria pesante ed edilizia. Migliori contesti si riscontravano nelle piccole fabbriche, dall’industria alimentare al comparto elettrotecnico, o negli scenari di campagna, che erano solitamente i meno svilenti[15].
C’erano meno controlli da parte delle guardie e una più libera circolazione degli internati militari anche al di fuori dei campi. Questo, insieme all’introduzione del pagamento in Reichsmark, permise l’accesso al mercato nero, che divenne vitale per la sopravvivenza di molti internati. Nonostante i miglioramenti previsti, molti IMI protestarono contro il passaggio allo status di civili. Temevano che il cambiamento li avrebbe portati a essere sospettati di collaborazione con i tedeschi dopo il loro ritorno.
I crimini tedeschi nei confronti dei prigionieri IMI, costretti a condizioni di prigionia terribili furono denunciati a guerra appena finita, tra gli altri, dal Generale Ettore De Blasio, comandate dello smistamento nel campo di Luckenwalde, il quale nel settembre 1945 redasse per lo stato maggiore un rapporto intitolato Atrocità naziste: massacro di Prigionieri Italiani[16]. Ma il documento non ebbe fortuna: le priorità del governo, in quella fase, erano altre.
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Una Resistenza disarmata
In che cosa consiste una scelta di resistenza quando non passa attraverso le armi? È una domanda che obbliga a ripensare i confini stessi di ciò che intendiamo per dissidenza, coraggio, sacrificio. Ricordiamo che la prigionia nei lager del Reich non fu l’esito di una sconfitta militare, ma la conseguenza di una scelta consapevole: quella di rifiutare, “per la loro dignità di uomini e di soldati”, l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana e alla Wehrmacht, pur sapendo che ciò avrebbe comportato la deportazione, il lavoro coatto, la fame, la morte[17]. Una resistenza silenziosa, quotidiana, disarmata, di straordinaria forza morale. Nel panorama europeo della prigionia militare, il caso italiano rappresenta un’eccezione. Nessun altro esercito degli ex alleati del Reich — né l’ungherese, né il rumeno, croato o slovacco — registrò un simile rifiuto collettivo. I loro soldati furono destinati al lavoro forzato, ma non costretti a scegliere tra la fame e il giuramento. Gli IMI, invece, furono sottoposti a pressioni continue, politiche e psicologiche, per arruolarsi nella RSI e combattere per Hitler[18]. Ma la stragrande maggioranza non cedette. Anche in condizioni estreme, la maggior parte degli IMI mantenne un comportamento coerente con i valori scelti: dignità, rifiuto della collaborazione, antifascismo[21]. Tutti parteciparono, a pieno titolo, alla lotta per la libertà.
Lo testimonia con forza Orazio Leonardi nel suo diario Sandbostel 1943. Anch’io ho detto “no”, una delle rare memorie pubblicate, in cui racconta come scegliere di non tradire significasse aderire, senza ambiguità, a un principio di rettitudine morale[19]. Leonardi sopravvisse e tornò a casa; ma migliaia di altri, coerenti fino in fondo, pagarono con la vita la loro fedeltà. Anche Giovannino Guareschi, tenente di artiglieria, lasciò una testimonianza netta della propria scelta nel diario di prigionia. Scrive:
Io non mi considero prigioniero, io mi considero combattente […] Sono un combattente senz’armi, e senz’armi combatto. La battaglia è dura perché il pensiero dei miei lontani e indifesi, la fame, il freddo, la tubercolosi, la sporcizia, le pulci, i pidocchi, i disagi non sono meno micidiali delle palle di schioppo […] Io servo la patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano»[20].
La storiografia più recente ha riconosciuto in questa scelta una delle maggiori espressioni della Resistenza italiana, pur estranea al modello combattente tradizionale[22]. Un atto collettivo, reiterato da centinaia di migliaia di uomini, che ha dato forma a quella che, con consapevolezza, è stata definita Resistenza senz’armi.
IMI, un abbandono politico e storiografico
Per decenni, la vicenda degli Internati Militari Italiani è rimasta ai margini della memoria pubblica e delle istituzioni repubblicane. Nessun monumento nazionale venne loro dedicato nei primi anni del dopoguerra, né fu loro riconosciuto uno status giuridico assimilabile a quello dei partigiani o dei reduci di guerra. Il loro sacrificio, silenzioso e non spettacolare, mal si adattava alla retorica dell’eroismo che accompagnò la narrazione ufficiale della Resistenza. A differenza delle associazioni di reduci o di partigiani, gli IMI non riuscirono a costituire un fronte unitario tale da incidere sul discorso pubblico. Le loro testimonianze circolarono in forma isolata, attraverso pubblicazioni autonome, memoriali privati, articoli su giornali locali. Alla frammentazione del ricordo si aggiunse quella spaziale: i luoghi dell’internamento, dispersi in centinaia di lager su territorio tedesco e migliaia di Kommando (distaccamenti di lavoro), furono in molti casi cancellati, trasformati in edifici civili, demoliti o dimenticati. La ricostruzione topografica di quei luoghi è tuttora in corso, peraltro priva di una banca dati centralizzata[23].
A guerra finita, il ritorno in Italia dei circa 560.000 superstiti — il 91% degli internati — non fu accolto con onori, ma con freddezza, quando non con sospetto. La propaganda fascista li aveva presentati come collaborazionisti. Su di loro gravava l’ombra del disonore. La monarchia, già delegittimata e prossima a cedere il passo, li considerò testimoni scomodi del vile abbandono decretato l’8 settembre. Se i reduci della Grande Guerra si sentirono eroi e divennero protagonisti dell’epopea dannunziana e della Marcia su Roma, i reduci della Seconda di ritorno dalla Germania tornarono da vigliacchi, nel disonore. In questo clima, gli IMI, stremati da due anni di prigionia, si ritrovarono isolati e invisibili, chiusi in un silenzio che spesso si prolungò all’interno delle stesse famiglie per molti decenni ancora. Il rimpatrio fu disorganizzato, privo di coordinamento statale. Alle iniziative individuali, si aggiunsero quelle religiose o vaticane a rendere possibile il ritorno. Le condizioni psicologiche dei reduci, segnati nel corpo e nell’animo, impedirono una elaborazione pubblica del trauma. Quale fosse la condizione psicologica di questi uomini che avevano sofferto si comprende dal fatto che solo 65.000 di loro — meno del 10% — s’iscrissero a un’associazione ex IMI nei sessant’anni successivi. La tendenza fu quella a chiudere in sé stessi l’atroce esperienza di quegli anni, nascondendola al mondo.
Sono passati oltre sessant’anni dal loro ritorno. Molti di loro non ci sono più. Ed ecco che nel 2006 finalmente – con un ritardo cosmico – arriva il riconoscimento giuridico della loro esperienza. Con l’articolo 1, comma 1270 della Legge n. 296, si assegna agli Internati Militari Italiani il titolo di “combattenti” per finalità morali e onorifiche[24]. Un provvedimento molto tardivo, che pur segnando una svolta formale, ha lasciato irrisolte tantissime questioni legate al risarcimento simbolico e al valore storico del vissuto di prigionia degli IMI[25].
Una storia dal basso
A partire dagli anni Ottanta e Novanta, grazie all’attività dell’ANEI – Associazione Nazionale Ex Internati – e all’apertura di alcuni archivi privati e pubblici, si è consolidato l’interesse per la diaristica e la memorialistica IMI. Tra le prime voci a emergere quella di Sante Amelio Boscolo Chio, il cui diario, redatto durante la prigionia, documenta le condizioni quotidiane di vita in un campo di lavoro tedesco[26]. La memoria degli internati ha risentito per lungo tempo della frammentarietà delle fonti e dell’assenza di un’adeguata circolazione editoriale. Alla fine del 1945 si stimavano esistere circa 5.000 diari di prigionia, ma solo una minima parte è stata pubblicata, spesso in edizioni private a bassa tiratura. Anche a questa lacuna si deve l’assenza degli IMI dal canone resistenziale ufficiale[27].
Recuperare la loro voce significa ascoltarli. Le lettere, i diari, le testimonianze costituiscono un corpus di ‘scritture dal basso’ nate non per essere pubblicate ma per far sopravvivere il dolore del ricordo[28]. Il diario di Giulio Prunai, redatto nello Stalag IV B, alterna note sulla fame e sul freddo a riflessioni su dignità e speranza[29]. La raccolta di lettere edite da Avagliano e Palmieri mostra la forza del linguaggio dei prigionieri che, pur nei limiti della censura, trasmette affetti, resistenza, coscienza morale[30]. Numerosi testi privati sull’internamento sono conservati presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano[31]. Voci fievoli ma potenti. Oltre ai casi editoriali noti di Guareschi, Levi, Bedeschi[32], si contano oggi circa quattrocento memorie di IMI pubblicate, spesso fuori commercio, con tirature tra le 300 e le 2.000 copie. Testi come il Diario di Gusen di Aldo Carpi, realizzato in forma illustrata, testimoniano come anche l’espressione artistica sia stata una forma di sopravvivenza e di resistenza psicologica nei lager[33]. Oltre alle parole, anche le immagini hanno un posto. I disegni, le caricature, gli oggetti artigianali creati con materiali di recupero furono forme di resistenza al dolore. Le opere conservate al Museo dell’Internamento di Padova e nella collezione ANEI di Roma, realizzate da soldati-artisti come Cesare Della Seta, sono documenti storici a pieno titolo[34].
Non meno importante è stato il recupero della memoria orale, avviato negli anni Novanta attraverso progetti dell’ANEI e della rete degli Istituti per la Storia della Resistenza. Centinaia di interviste ad ex internati sono state raccolte e digitalizzate. Alcune voci, come quella di Luigi Caturelli, internato ad Altengrabow e intervistato dall’ANEI di Firenze, danno dettaglio delle mille strategie della sopravvivenza quotidiana, della solidarietà tra commilitoni, della difficile gestione del trauma del ritorno[35]. Documenti da non considerare la voce dei vinti, ma la testimonianza di uomini che seppero rimanere fedeli a una moralità che gli imponeva di rifiutare la guerra[36].
Apparentemente questa memorialistica appare abbondante. Ma in realtà è fragile e incompleta. A fronte delle dimensioni imponenti del fenomeno IMI, il numero delle pubblicazioni è esiguo. I protagonisti, ormai scomparsi, hanno lasciato il compito a figli e nipoti. Ad oggi, solo circa 400 memorie e antologie di reduci sono state date alle stampe. Per lo più edizioni private, fuori commercio, con tirature limitate, tra le 300 e le 2.000 copie; libri e libretti di difficile reperibilità[37]. Nel complesso agli IMI è stato tributato meno di un libro a testa[38]. Non dimentichiamoci dunque di loro lasciando all’oblio il dolore di chi visse l’affronto della disumanizzazione. Riprendiamo in mano i loro libri, che ci fanno comprendere cosa significhi “la demolizione di un uomo”[39].
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Memoria negata, memoria ritrovata
La memoria degli Internati Militari Italiani ha conosciuto un lungo periodo di negazione. Non solo l’oblio istituzionale e il ritardo storiografico hanno contribuito a rimuoverne l’esperienza, ma anche la scomparsa fisica dei luoghi della prigionia ha reso più difficile la sua trasmissione. I lager che accolsero centinaia di migliaia di IMI – da Sandbostel a Dora-Mittelbau, da Wietzendorf a Zeithain – furono smantellati o riconvertiti nel dopoguerra, lasciando al loro posto solo tracce residue: frammenti di mura, stazioni dismesse, magazzini riutilizzati. A differenza dei campi destinati alla deportazione razziale, quelli degli IMI non sono entrati nel circuito simbolico della memoria europea del Novecento[40].
La topografia dell’internamento è rimasta invisibile, marginale nei percorsi scolastici e istituzionali. Anche per questo, l’internato militare italiano non è mai divenuto una figura centrale nei rituali civili o nel “mito fondativo” della Repubblica. Troppo militare per essere assimilato al resistente civile, troppo resistente per rientrare nel paradigma del soldato sconfitto, l’IMI è rimasto ai margini di ogni narrazione condivisa. A questa invisibilità si è sommata la varietà delle esperienze individuali. Ogni IMI visse la cattura, il lager, il rifiuto del giuramento e la sopravvivenza in modo diverso. Alcuni furono deportati a Sachsenhausen, altri lavorarono nelle miniere dell’Harz o nei cantieri della Turingia. Alcuni morirono in prigionia, altri – come Giovanni Conti, sopravvissuto a Zeithain – impiegarono anni a trovare le parole per raccontare[41]. Questa pluralità rende difficile ogni sintesi, ma restituisce con forza la dimensione collettiva di una scelta etica reiterata da centinaia di migliaia di uomini.
Il ritorno degli IMI in Italia, tra il 1945 e il 1946, fu silenzioso. Nessuna cerimonia ufficiale, nessun riconoscimento. I reduci tornarono in una patria che stava costruendo la propria identità sulla Resistenza armata, e che non sapeva dare senso al loro rifiuto disarmato. Molti soffrirono conseguenze fisiche gravi – malattie, lesioni, invalidità – e un disagio psicologico profondo. L’assenza di una cornice simbolica e collettiva rese il reinserimento ancor più difficile: il trauma venne interiorizzato, spesso taciuto persino in famiglia. Emblematico il caso di Luigi Solari, tornato dallo Stalag VIII A con gravi danni respiratori, che mantenne un silenzio ostinato rotto solo dalla figlia, anni dopo. O quello di Giovanni Pizzi, deportato a Deba, che affidò alla poesia il compito di custodire il ricordo indicibile[42]. Solo a partire dagli anni Ottanta e Novanta è iniziato un percorso di ricostruzione memoriale, grazie all’opera di associazioni come l’ANEI e all’impegno dei familiari. Diari, lettere, oggetti sono stati recuperati, trascritti, pubblicati. In molti casi, il lutto si è trasformato in memoria condivisa[43].
Nel volto e nella voce del sergente Nicola Ricci, deportato a Zeithain e sopravvissuto a tre anni di lavoro coatto, rivediamo oggi la storia di tanti altri. La memoria degli IMI non è soltanto un dovere verso il passato. È un investimento sul futuro. È il segno di una resistenza morale che dopo essere stata negata può essere ritrovata, riconosciuta e trasmessa come patrimonio etico e civile della Repubblica alle nuove generazioni perché ne facciano tesoro.
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Note al testo
[1] Cui si aggiungono nei lager 33.000 deportati politici (militari e civili) e 9.000 zingari ed ebrei d’Italia e dell’Egeo.
[2] La Resistenza, con la “R” maiuscola, si intende qui nella sua identificazione con la lotta armata partigiana, secondo il canone consolidato della memoria. I primi grandi contributi risalgono agli anni Cinquanta, con: R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953; G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1965; e in seguito C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; che pur con nuove chiavi interpretative mantiene centrale il paradigma politico-militare nell’opposizione al nazifascismo.
[3] G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, 1943–1945. Traditi, disprezzati, dimenticati, Roma, Ufficio Storico SME, 1992; N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939–1945), Firenze, Le Lettere, 1992; A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Torino, Einaudi, 1997; M. Avagliano, M. Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943–1945), Bologna, Il Mulino, 2021.
[4] Il Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit di Berlino ospita una mostra permanente intitolata Tra più fuochi. La storia degli internati militari italiani 1943–1945. Il sito ufficiale offre una sezione dedicata in italiano: https://www.ns-zwangsarbeit.de/it/internati-militari-italiani/. Vedi anche il catalogo bilingue (tedesco-italiano) della mostra: Tra più fuochi. La storia degli internati militari italiani 1943–1945, catalogo della mostra permanente, Berlino, Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit, 2017.
[5] M. Avagliano, M. Palmieri (a cura di), Lettere dagli Stalag. La posta dei militari italiani internati in Germania (1943–1945), Torino, Einaudi, 2009; M.E. Ciccarello, “Lettere dagli Stalag: pensieri, sentimenti, emozioni che si fanno storia”, in M@gm@, vol. 16, n. 1, 2018, https://www.analisiqualitativa.com/magma/1601/
articolo_05.htm, consultato il 28/04/2025.
[6] M. Franzinelli, Schiavi di Hitler. I militari italiani nei lager nazisti, Milano, Mondadori, 2023,
[7] Cfr. G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, pp. 326–330; N. Labanca, Prigionieri, internati, resistenti. Memorie dell’“altra Resistenza”, Roma-Bari, Laterza, 2022.
[8] Cfr. Schreiber, I militari italiani internati, cit., pp. 29-41, 45–51.
[9] Ivi, pp. 261–270. Sulla stessa linea Avagliano, Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, cit., pp. 121–130.
[10] Per una puntuale descrizione M. De Caro, Storia di una resistenza. Gli internati militari italiani, Ciesse Edizioni, 2022, pp. 38–42. Sulla distribuzione geografica dei lager IMI e la stretta connessione con l’apparato economico del Terzo Reich, si veda De Caro, Storia di una resistenza¸ cit., pp. 38–42.
[11] Cfr. C. Sommaruga, Per non dimenticare. Bibliografia ragionata dell’internamento e deportazione dei militari italiani nel Terzo Reich (1943–1945), Brescia, ANEI, 2001, pp. 53–56. L’autrice fornisce un elenco dettagliato dei principali Stalag e Oflag dove furono rinchiusi gli IMI, con indicazioni relative alla collocazione geografica, alla tipologia dei detenuti, alle condizioni generali di vita.
[12] La memoria dei circa mille internati italiani deceduti a Zeithain si deve alla grande opera memoriale dell’ex deportato a Dachau Don Giovanni Fortin, promotore del Tempio dell’Internato Ignoto a Terranegra, in Provincia di Padova. Don Giovanni Fortin, sacerdote padovano, fu arrestato nel dicembre 1943 per aver dato rifugio a dodici prigionieri alleati e deportato nel campo di concentramento di Dachau. Sopravvissuto alla prigionia, si dedicò alla commemorazione degli IMI promuovendo la costruzione del Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto (Terranegra, Padova), inaugurato nel 1955. Internamento, dedicato alla memoria dei circa 650.000 IMI deportati nei lager nazisti. Don Fortin è sepolto nel sacello del Tempio, accanto al sarcofago dell’Internato Ignoto; cfr. https://museodellinternamento.it/tempio-2/. Visitiamo il tempio quando ne abbiamo occasione. Doveroso un tributo al sacerdote e a questi sfortunati ragazzi.
[13] I primi prigionieri polacchi arrivarono a Luckenwalde nel settembre 1939; essi costruirono le baracche che ospitarono successivamente olandesi e belgi. Quindi vi giunsero 43 mila prigionieri di guerra francesi (tra cui 4 mila africani delle colonie), a metà del 1940. Vi arrivarono poi jugoslavi e russi. Alla fine del 1943 gli si unirono oltre 15 mila internati militari italiani, successivamente dispersi in altri campi. Da questo Stalag passarono più di 200 mila prigionieri: 8000 ospitati nel campo principale, gli altri inviati in oltre 1.000 Arbeitskommandos (distaccamenti di lavoro) sparsi nel Brandeburgo. Il campo venne liberato dall’esercito sovietico il 22 aprile 1945. Cfr. ANED – Sezione di Brescia: https://www.deportatibrescia.it/lager-o-campo-prigio/Stalag-iii-a-luckenwalde/.
[14] Le baracche erano prive di riscaldamento e i prigionieri dormivano su paglia umida infestata da pidocchi, senza lenzuola né coperte. Testimoni raccontano che bastava una protesta verbale, un rallentamento durante il lavoro o il possesso di una patata rubata per essere puniti con la morte. Ogni mattina, il “trasporto dei morti” veniva eseguito su carri spinti dagli stessi prigionieri verso la fossa comune. A Dora la vita media di un prigioniero non superava i sei mesi; cfr. De Caro, Storia di una resistenza¸ cit., pp. 87–95; Labanca, Fra sterminio e sfruttamento, Le Lettere, 1992, pp. 145–151.
[15] F. Goddi, Guerra e prigionia nella memoria degli internati militari italiani, in F. Focardi (a cura di), Le vittime italiane del nazionalsocialismo. Le memorie dei sopravvissuti tra testimonianza e ricerca storica, Roma, Viella, 2021, pp. 103-120;
[16] Vedi Franzinelli, Schiavi di Hitler, cit., passim.
[17] S. Pascale, O. Materassi, Internati Militari Italiani. Una scelta antifascista, Treviso, Editoriale Programma, 2022; cfr. degli stessi autori l’articolo “Internati Militari Italiani, una scelta antifascista”, pubblicato sul sito dell’ANPI – Comitato Provinciale di Udine, https://www.anpiudine.org/internati-militari-italiani-una-scelta-antifascista-di-silvia-pascale-e-orlando-materassi, consultato il 30 aprile 2025. Precedentemente, L. Zani, Internati e resistenti, in Focardi, Le vittime italiane del nazionalsocialismo, cit., pp. 253-280.
[18] Vedi Schreiber, I militari italiani internati, cit., pp. 147–158.
[19] O. Leonardi, Sandbostel 1943. Anch’io ho detto “no”, a cura di G. Mezzalira, Bolzano, Circolo Culturale ANPI, 2012 (2° edizione), consultabile in .pdf al link: https://www.deportati.it/static/upl/qu/quaderno5_leonardi.pdf.
[20] G. Guareschi, Il grande diario. Giovannino cronista del lager (1943-1945), Milano, Rizzoli 2008.
[21] Cfr. Labanca, Prigionieri, internati, resistenti, cit., pp. 65–72.
[22] Cfr. Avagliano, Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, cit., pp. 11–15.
[23] Cfr. anche Avagliano, Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, cit., pp. 85–94. Gli autori denunciano il grave ritardo della storiografia nel censire i luoghi dell’internamento. Molti campi furono demoliti senza lasciare tracce, altri riconvertiti in zone industriali o agricole. Alcune iniziative, come quelle dell’ANEI o del Memoriale Dora-Mittelbau, hanno tentato una prima ricostruzione, ma manca ancora una banca dati centralizzata accessibile al pubblico.
[24] Cfr. legge 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 1270: “Ai fini del riconoscimento morale e storico è riconosciuto il titolo di ‘combattenti’ ai militari internati nei campi nazisti dopo l’8 settembre 1943 che rifiutarono l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana”.
[25] Cfr. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, cit., pp. 183–192. L’autrice dedica una sezione conclusiva alla ricezione italiana della vicenda IMI, evidenziando l’assenza di iniziative istituzionali nei primi decenni e il lungo silenzio della classe politica italiana, in contrasto con la mole di documentazione raccolta dai comandi alleati.
[26] M.E. Boscolo Chio, Diario della mia prigionia. Sante Amelio Boscolo Chio Internato n° 183019, Milano, Art&Print Editrice, 2021
[27] L’espressione appare per la prima volta nel volume Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana (1943-1945). Dalle testimonianze dei militari toscani internati nei lager nazisti, prefazione di Leonetto Amadei, Firenze, Le Monnier, 1984. Per l’acquisizione storiografica vedi tra gli altri Labanca, Prigionieri, internati, resistenti, cit., pp. 33–42; Franzinelli, Schiavi di Hitler, cit., pp. 51–74ss.
[28] Ad esempio, tra gli altri, la problematica del ricordo degli IMI è trattata da Goddi, Guerra e prigionia nella memoria degli internati militari italiani, cit.; sulla memorialistica IMI A. Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti, 1943-1945, Torino, Einaudi, 2009;
[29] Giulio Prunai, La sboba. Diario dell’internato militare n. 30067, Firenze, Edizioni Polistampa, 2020.
[30] M. Avagliano, M. Palmieri (a cura di), Lettere dagli Stalag. La posta dei militari italiani internati in Germania (1943–1945), Torino, Einaudi, 2009.
[31] Cfr. http://archiviodiari.org/
[32] Guareschi, Diario clandestino, cit; P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, De Silva, 1947 (poi Einaudi, Torino, edizioni successive); G. Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia, 1966; Id., Fronte greco-albanese: 1940–1941. La tragica epopea degli alpini nella neve e nel fango, Milano, Mursia, 1971.
[33] Aldo Carpi, Diario di Gusen, Milano, Il Saggiatore, 1971; vedi anche: “Aldo Carpi, il pittore deportato salvato dai suoi disegni”, Corriere della Sera, 27 gennaio 2015, https://reportage.corriere.it/senza-categoria/2015/aldo-carpi-il-pittore-deportato-salvato-dai-suoi-disegni-shoah-memoria/.
[34] Cfr. Museo dell’Internamento, Padova; ANEI, Collezione Roma.
[35] ANEI Firenze, Archivio orale. Testimonianza di Luigi Caturelli, raccolta 1998. (Testo depositato presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza).
[36] Cfr. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, cit., pp. 201–215. L’ultima parte del volume analizza il ruolo della memoria e il ritardo storiografico con cui la vicenda IMI è stata accolta in Italia, suggerendo una comparazione tra le politiche memoriali tedesche e italiane.
[37] Si può calcolare che, considerando gli invenduti e gli acquisti di terzi, le copie dei libri biografici sull’internamento non raggiungono il loro numero: meno di un libro a testa! Cfr. C. Sommaruga, Gli internati militari italiani (I.M.I.) nei lager nazisti, rubrica “Le pietre raccontano”, sito internet del Comune di Cinisello Balsamo (MI): https://www.comune.cinisello-balsamo.mi.it/pietre/spip.php?article485, consultato 02/05/2025.
[38] Si può calcolare che, considerando gli invenduti e gli acquisti di terzi, le copie dei libri biografici sull’internamento non raggiungono il loro numero: meno di un libro a testa! Cfr. C. Sommaruga, Gli internati militari italiani (I.M.I.) nei lager nazisti, rubrica “Le pietre raccontano”, sito internet del Comune di Cinisello Balsamo (MI): https://www.comune.cinisello-balsamo.mi.it/pietre/spip.php?article485, consultato 02/05/2025.
[39] “In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile”: P. Levi, Se questo è un uomo, Milano, Einaudi, 1989, p. 19.
[40] Cfr. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania, cit., pp. 183–187. L’autrice sottolinea la cancellazione materiale dei lager e la loro esclusione dalla geografia simbolica europea della memoria.
[41] Giovanni Conti, Dove il silenzio urla. Diario di un internato militare italiano 1943–1945, a cura di M. Conti, Milano, Mursia, 2008; cfr. anche Schreiber, I militari italiani internati, cit., pp. 271–279; Pascale, Materassi, Internati Militari Italiani. Una scelta antifascista, cit., pp. 123–126.
[42] Sulle testimonianze postume si veda: F. Cecconi, Prigionieri di guerra. Gli italiani nei campi alleati e tedeschi (1940–1947), Bologna, il Mulino, 2012, pp. 215–219; A. D’Auria, I versi della prigionia. Poesie di Giovanni Pizzi, IMI deportato a Deba, Roma, ANRP, 2018.
[43] Ad esempio L. Zaninelli, Gli IMI a scuola: un progetto di educazione alla memoria, in “Memoria e futuro”, III (2021), pp. 44–52. Il progetto propone percorsi formativi e strumenti didattici volti a integrare la vicenda degli IMI nell’insegnamento della storia contemporanea.
Bibliografia
- Avagliano, Mario; Palmieri, Marco, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943–1945), Bologna, Il Mulino, 2020.
- Battaglia, Roberto, Storia della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), Torino, Einaudi, 1953.
- Bedeschi, Giulio, Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia, 1966.
- Bedeschi, Giulio, Fronte greco-albanese: 1940–1941. La tragica epopea degli alpini nella neve e nel fango, Milano, Mursia, 1971.
- Carpi, Aldo, Diario di Gusen, Milano, Il Saggiatore, 1971.
- Cecconi, Francesco, Prigionieri di guerra. Gli italiani nei campi alleati e tedeschi (1940–1947), Bologna, Il Mulino, 2012.
- Ciccarello, Maria Elena, “Lettere dagli stalag: pensieri, sentimenti, emozioni che si fanno storia”, in M@gm@, vol. 16, n. 1, 2018, https://www.analisiqualitativa.com/magma/1601/articolo_05.htm.
- Conti, Giovanni, Dove il silenzio urla. Diario di un internato militare italiano 1943–1945, a cura di M. Conti, Milano, Mursia, 2008.
- D’Auria, Antonio, I versi della prigionia. Poesie di Giovanni Pizzi, IMI deportato a Deba, Roma, ANRP, 2018.
- De Caro, Marcello, Storia di una resistenza. Gli internati militari italiani, Treviso, Ciesse Edizioni, 2022.
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- Franzinelli, Mimmo, Schiavi di Hitler. I militari italiani nei lager nazisti, Milano, Mondadori, 2023.
- Goddi, Francesco, “Guerra e prigionia nella memoria degli internati militari ita-liani”, in F. Focardi (a cura di), Le vittime italiane del nazionalsocialismo. Le memorie dei sopravvissuti tra testimonianza e ricerca storica, Roma, Viel-la, 2021, pp. 103–120.
- Guareschi, Giovannino, Il grande diario. Giovannino cronista del lager (1943–1945), Milano, Rizzoli, 2008.
- Hammermann, Gabriele, Gli internati militari italiani in Germania, Bologna, Il Mulino, 2019.
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- Labanca, Nicola (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939–1945), Firenze, Le Lettere, 1992.
- Levi, Primo, Se questo è un uomo, Torino, De Silva, 1947.
- Mantellassi, Orlando; Pascale, Silvia (a cura di), Gli Internati Militari Italiani. Testimonianze di donne, Treviso, Ciesse Edizioni, 2022.
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- Palmieri, Marco, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti, 1943–1945, Torino, Einaudi, 2009.
- Pascale, Silvia; Materassi, Orlando, Internati Militari Italiani. Una scelta antifascista, Treviso, Editoriale Programma, 2022.
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- Prunai, Giulio, La sboba. Diario dell’internato militare n. 30067, Firenze, Edizioni Polistampa, 2020.
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- Rochat, Giorgio, Le guerre italiane 1935–1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005.
- Schreiber, Gerhard, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, 1943–1945. Traditi, disprezzati, dimenticati, Roma, Ufficio Stori-co SME, 1992.
- Sommaruga, Claudio, Per non dimenticare. Bibliografia ragionata dell’internamento e deportazione dei militari italiani nel Terzo Reich (1943–1945), Brescia, ANEI, 2001.
- Zaninelli, Luca, “Gli IMI a scuola: un progetto di educazione alla memoria”, in Memoria e futuro, n. 3, 2021, pp. 44–52.