La Campagna di Russia, 70° anniversario

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    La locandina della mostra organizzata nel 2013, 70° anniversario della Campagna di Russia

    1941 L’inizio della Campagna di Russia

    Il 22 giugno 1941 la Germania invase l’URSS. I motivi dell’attacco erano sia ideologici sia strategici. Da una parte si voleva perseguire la lotta al comunismo e la conquista dello Spazio Vitale (Lebensraum) dall’altra Hitler era convinto che Stalin stesse tramando un attacco a sorpresa contro la Germania e con l’Operazione Barbarossa intendeva anticiparlo. In realtà non era così. L’offensiva contro l’URSS fu scatenata su un fronte molto ampio: dal circolo polare al Mar Nero. Tre erano le direttrici principali: Nord con obiettivo Leningrado, Centro con obiettivo Mosca, sud con obiettivo Kiev. L’esercito tedesco era grande, ma non abbastanza. Fu necessario quindi ricorrere all’aiuto degli alleati: la Romania, l’Ungheria, la Finlandia, perfino la Slovacchia inviarono dei corpi di spedizione. Altri paesi come Spagna e Portogallo permisero ai loro cittadini di militare come volontari nella Wehrmacht, furono inoltre reclutati molti cittadini sovietici anticomunisti che formarono intere divisioni dell’esercito e delle Waffen-SS (Lettoni, Estoni, Lituani, Ucraini, Cosacchi ecc.).

    Operazione Barbarossa - Giugno 1941

    Operazione Barbarossa – Giugno 1941L’Italia contribuì quasi da subito con il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), formato da 3 divisioni più vari reparti di Corpo d’Armata per un totale di circa 62.000 uomini, che giunse nel sud della Russia nell’agosto del 1941. Lo comandava il generale Giovanni Messe, uno dei migliori comandanti italiani del tempo. Il CSIR diede una buona prova, tanto che i Tedeschi chiesero l’invio di altre truppe italiane. Nel maggio del 1942 Mussolini decise la formazione di un nuovo Corpo di Spedizione, L’ARMIR, che divenne operativa in luglio. Erano 230.000 uomini in tutto divisi in 3 Corpi d’Armata di cui uno Alpino, comandati dal generale Italo Gariboldi. Il CSIR venne rinominato XXXV Corpo d’Armata e fu inglobato nell’ARMIR. Oltre alle forze di terra, in Russia operarono anche un Corpo Aereo della Regia Aeronautica (con aerei da caccia, ricognizione e trasporto), e un contingente navale della Regia Marina formato da Mas, sommergibili tascabili ed altre piccole unità, che inviato sul Mar Nero ottenne diversi successi contro il naviglio sovietico.

    Nel frattempo l’avanzata delle Forze dell’Asse nel sud della Russia aveva subito una battuta d’arresto. I Sovietici erano riusciti ad accumulare notevoli riserve ed a sferrare, a partire dall’agosto 1942, delle controffensive che avevano messo in crisi l’intero settore. L’ARMIR, schierata tra l’Armata Ungherese a nord e l’Armata Rumena a sud, arrestò gli attacchi al prezzo di gravi perdite. Fino a novembre la situazione rimase pressochè immutata, con le truppe italiane attestate su un fronte di 270 km allestito con opere difensive simili a quelle della Grande Guerra. Il 19 novembre 1942 l’Armata Rossa lanciò una massiccia offensiva volta ad accerchiare la 6ª Armata tedesca impegnata a Stalingrado. L’azione portò anche all’annientamento dell’ Armata romena, schierata a sud-est dell’ARMIR. In tal modo gli Italiani rimasero pericolosamente esposti a nuove possibili manovre nemiche.

    Il 16 dicembre un’altra offensiva sovietica (operazione Piccolo Saturno) si scatenava contro il settore centrale del fronte italiano. Il primo attacco fu respinto, ma il 17 dicembre i Russi impiegarono le loro truppe corazzate e l’aviazione, travolgendo i difensori e obbligandoli alla ritirata. L’obiettivo della grande manovra sovietica era di congiungere alle spalle dello schieramento italo-tedesco-rumeno le due braccia di una tenaglia, formata da potenti gruppi corazzati. Il 21 dicembre le due colonne russe provenienti da nord e da est si incontrarono a Degtevo, chiudendo di fatto il XXXV Corpo d’armata italiano e il XXIX Corpo d’Armata tedesco in un’immensa sacca. Quasi prive di mezzi di trasporto, costrette a vagare a piedi in cerca di una via di scampo, le divisioni di fanteria dell’ARMIR finirono in gran parte annientate, falcidiate dalla fame, da un freddo polare, dagli attacchi delle colonne corazzate nemiche e dei reparti partigiani che agivano alle loro spalle.

    Il 12 gennaio 1943 i sovietici diedero il via alla seconda fase dell’offensiva, travolgendo l’Armata Ungherese, schierata a nord del Corpo d’Armata Alpino. Il Corpo d’Armata alpino rimase chiuso in una sacca che includeva anche la divisione Vicenza. L’ordine di ripiegare dal Don venne dato solo il 17 gennaio, con molto ritardo.

    Durante la ritirata, le truppe dell’Asse (in particolare Italiani ma anche Ungheresi e Tedeschi) in marcia verso ovest si trovarono la strada sbarrata da ingenti forze sovietiche che si erano asserragliate nel villaggio di Nikolajevka. L’unica unità rimasta relativamente integra ed ancora in grado di combattere era la divisione alpina Tridentina. Con un attacco disperato condotto dal comandante della divisione generale Reverberi (MOVM), gli alpini riuscirono ad avere la meglio su un nemico molto meglio equipaggiato, seppure al prezzo di gravi perdite. Gli alpini riuscirono nel miracolo, arrivando perfino a fare dei prigionieri, a catturare quattordici cannoni ed a riutilizzarli contro i Russi. Innumerevoli furono gli atti di eroismo, e molte le decorazioni al valore che furono concesse; una battaglia epica, che costò la vita a moltissimi alpini. Fu così che circa 20.000 uomini, tra i quali più di 7000 feriti o congelati, riuscirono a uscire dalla sacca ed a raggiungere il 31 gennaio le linee amiche a Scebekino. Delle 4 divisioni solo una, la Tridentina, era riuscita a rimanere complessivamente integra, seppure fortemente dissanguata. Delle altre, riuscirono a rientrare solo poche migliaia di uomini, per lo più sbandati.

    Con la sostanziale distruzione dell’ARMIR ebbe di fatto termine la partecipazione italiana alla campagna sul fronte orientale. Solo poche unità minori rimasero operative, alle dipendenze dirette della Wehrmacht. Il CSIR nelle fasi iniziali della campagna di Russia aveva avuto oltre 1.600 morti, 5.300 feriti, più di 400 dispersi e oltre 3.600 congelati. Tra il 30 luglio 1942 e il 10 dicembre 1942 l’ARMIR ebbe 3.216 morti e dispersi e 5.734 fra feriti e congelati. Per quanto riguarda le perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata, le cifre ufficiali parlano di 84.830 militari che non rientrarono nelle linee tedesche, e che furono indicati come dispersi, oltre a 29.690 feriti e congelati che riuscirono a rientrare. Le perdite ammontarono quindi a 114 520 militari su 230 000. Difficile dire in quanti caddero nei combattimenti e quanti vennero catturati ed avviati ai campi di prigionia; resta il fatto che degli 84.830 dispersi solo in 10.030 fecero ritorno in Italia dopo la guerra.

    Le disfatte del fronte meridionale a Stalingrado e sul Don sancirono l’inizio della fine dell’egemonia nazista in Europa. L’Armata Rossa continuò ad avanzare ed a liberare i territori che erano stati occupati dai Tedeschi. Due anni dopo, al prezzo di milioni di morti, giunse a Berlino.

    Gli Alleati della Germania sul Fronte Orientale

    Il fronte russo è stato indiscutibilmente il campo di battaglia più esteso in tutte le guerra combattute dall’uomo nella storia: si estendeva praticamente senza soluzione di continuità dal Circolo Polare Artico al Mar Nero, per una lunghezza che al suo apice raggiunse poco meno di 3000 chilometri. Una simile vastità richiese l’impiego di una enorme quantità di uomini, soprattutto nelle fasi difensive della campagna. La Wehrmacht, già impegnata come forza d’occupazione in mezza Europa e con un corpo di spedizione combattente in Nord Africa, ebbe grande difficoltà a schierare un numero sufficiente di uomini. Per questa ragione attorno alla Germania fu costituita una vera e propria forza multinazionale rivolta a recuperare uomini per combattere il comune nemico sovietico.

    Questa forza era estremamente eterogenea, e comprendeva sia stati indipendenti con corpi di spedizione autonomi (Romania, Finlandia, Ungheria, Italia, Bulgaria, Slovacchia), sia volontari stranieri incorporati nella Wehrmacht dalle provenienze più disparate: Lettoni, Lituani, Estoni, Russi, Ucraini, Armeni, Cosacchi, Valloni, Fiamminghi, Olandesi, Croati, perfino Spagnoli e Portoghesi, questi ultimi due inseriti nella famosa Divisione Azzurra dell’esercito tedesco. Tanto diversa era la provenienza di questi uomini, quanto diverse potevano essere le motivazioni che spinsero intere nazioni o singoli volontari a partire per la Russia: la difesa del territorio nazionale (Finlandia) o la sua liberazione dai Sovietici (per gli stati baltici), calcolo politico, l’obbligo di rispettare un patto d’alleanza, o anche per combattere il bolscevismo come nel caso di molti volontari centroeuropei e scandinavi che si arruolarono nelle Waffen-SS.

    Anche equipaggiamento e addestramento potevano variare moltissimo, ma in genere erano entrambi di gran lunga inferiori agli standard tedeschi. In alcuni casi, quelli più drammatici, i contingenti dei paesi alleati furono in parte o in toto riequipaggiati con armi e materiali forniti tedeschi. Per quanto concerne i volontari incorporati nella Wehrmacht, in larga maggioranza furono impiegati come lavoratori militarizzati o con compiti di presidio nelle retrovie, tuttavia in diverse occasioni vennero organizzati in unità militari autonome con la truppa formata da membri di una certa etnia e con sottufficiali e ufficiali almeno in parte tedeschi. Oltre alla già citata divisione spagnola, alla Legione Croata e a varie altre formazioni incorporate nell’esercito tedesco, molte altre unità “etniche” formate da Lettoni, Estoni, Fiamminghi e Olandesi, solo per citarne alcune, combatterono nelle Waffen-SS. In tutti questi casi gli uomini erano equipaggiati e armati con materiale tedesco (o di preda bellica) e portavano insegne distintive della loro provenienza.

    Operazione Barbarossa

    Il 22 giugno 1941 la Wehrmacht attaccò la Russia su un fronte larghissimo. L’Armata Rossa fu colta di sorpresa, così come tutta la dirigenza sovietica. Obiettivo dell’operazione era la conquista della parte europea dell’URSS con le sue città principali (soprattutto Mosca) e le aree industriali e minerarie, oltre alla distruzione delle forze armate viste da sempre come una grave minaccia per la Germania. L’attacco fu condotto da tre gruppi di Armate (denominate Nord, Centro, Sud) per un totale di 146 divisioni. L’Armata Rossa era molto più grande ma male organizzata, schierata e comandata. Solo nei primi dieci giorni furono spazzate via 40 divisioni con 300.000 uomini, ed immense quantità di armi e mezzi. La quantità di prigionieri caduti in mano tedesca fu tale che in alcuni casi rallentarono l’avanzata verso oriente. Il 26 settembre cadde Kiev, e ciò costò ai Russi 5 armate e un milione di uomini, tra cui circa 600.000 prigionieri.

    L’avanzata proseguì inarrestabile per mesi: furono inflitte perdite gravissime e vastissimi territori vennero conquistati. La stanchezza ed il logoramento iniziarono però a farsi sentire: le linee di rifornimento si erano allungate a dismisura e forti contingenti dovevano essere lasciati a presidio delle zone occupate. La veloce avanzata aveva infatti lasciato dietro le linee intere unità regolari dell’esercito sovietico: aiutate dalla popolazione locale queste avevano costituito pericolose formazioni partigiane che attaccavano la Wehrmacht alle spalle. Inoltre, un inverno freddissimo si stava avvicinando inesorabilmente e l’Armata Rossa si stava riorganizzando e potenziando. Lo slancio offensivo tedesco verso Mosca si spense alla fine del 1941, quando i reparti della Wehrmacht che si erano spinti più avanti vennero fermati a trenta chilometri dalla capitale. A nord invece, l’avanzata fu fermata davanti a Leningrado, mentre a sud l’avanzata procedette ancora per alcuni mesi, per fermarsi definitivamente dopo la presa di Stalingrado nell’autunno del 1942.

    Il C.S.I.R.

    A seguito dell’invasione dell’Unione Sovietica con l’Operazione Barbarossa, Mussolini decise l’invio di un Corpo di Spedizione italiano in aiuto dell’alleato tedesco. Con questo gesto egli intendeva riportare un equilibrio nell’alleanza con la Germania dopo gli aiuti ricevuti in Grecia e in nord Africa. Inoltre, pensava che un impegno militare avrebbe permesso di ottenere maggiori vantaggi sul tavolo delle trattative di pace, un ragionamento analogo a quello che aveva portato il nostro paese in guerra l’anno precedente.
    Per il Corpo di Spedizione Italiano in Russia furono scelte le migliori unità a disposizione: il Duce non voleva sfigurare davanti al Fuehrer e doveva dimostrare la forza e l’efficienza del Regio Esercito. Di dimensioni equivalenti a un Corpo d’Armata, il CSIR fu formato dalle divisioni autotrasportabili di fanteria “Pasubio” e “Torino” e dalla divisione celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta”; tre divisioni in tutto, più alcune unità alle dirette dipendenze del Comando per un totale di 62.000 uomini circa con 220 pezzi d’artigleria, 60 mezzi corazzati ed una componente aerea formata da circa 85 velivoli. Gli autocarri disponibili erano 5.500 e bastavano per trasportare una divisione alla volta.

    IL CSIR giunse in Russia via treno dopo un viaggio lunghissimo, e divenne operativo in seno all’11^ Armata tedesca nell’agosto del 1941, prima con la Pasubio e poi via via con le altre unità mano a mano che queste arrivavano in linea. A causa della cronica mancanza di automezzi però, alcune unità dovettero raggiungere il fronte a piedi, come ai tempi di Napoleone.

    Gli Italiani apportarono un piccolo ma valido contributo all’avanzata delle forze dell’Asse nel sud della Russia. Nonostante i mezzi limitati, conquistarono città e presero prigionieri guadagnandosi il rispetto degli alleati. L’avanzata si fermò a fine novembre, con l’approssimarsi di un inverno freddissimo. Le posizioni conquistate vennero consolidate e si attese la bella stagione. Nel frattempo i Russi scatenarono alcune offensive che tuttavia vennero arrestate, non senza qualche difficoltà. Tra il gennaio ed il marzo 1942 il CSIR ricevette alcune unità di rinforzo: il battaglione alpini sciatori “Monte Cervino”, il’6° reggimento bersaglieri ed il 120° reggimento artiglieria, ed in giugno passò sotto il comando della 14^Armata. In agosto fu ridenominato XXXV Corpo d’Armata e assegnato all’ARMIR di cui seguirà la sorte. Fino a quel momento il CSIR aveva avuto oltre 1.600 morti, 5.300 feriti, più di 400 dispersi e oltre 3.600 congelati.

    Unità facenti parte del C.S.I.R.

    • 30º Raggruppamento artiglieria di Corpo d’Armata
    • Legione CC. NN.Tagliamento
    • CIV battaglione mitraglieri di C. A.
    • II battaglione controcarro 47/32
    • 1ª compagnia bersaglieri motociclisti
    • IV battaglione genio artieri
    • I e IX battaglione genio pontieri
    • VIII battaglione genio collegamenti
    • I battaglione chimico
    • 82° reparto salmerie
    • 2° autoraggruppamento d’Armata

    9ª Divisione fanteria “Pasubio”

    • 79º Reggimento fanteria
    • 80º Reggimento fanteria
    • 8º Reggimento artiglieria motorizzato

    52ª Divisione fanteria “Torino”

    • 81º Reggimento fanteria
    • 82º Reggimento fanteria
    • 52º Reggimento artiglieria motorizzato

    3ª Divisione Celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta”

    • 3º Reggimento bersaglieri
    • Reggimento Savoia Cavalleria (fino al 15/3/1942)
    • Reggimento lanceri di Novara (fino al 15/3/1942)
    • 3° Reggimento artiglieria a cavallo (fino al 15/3/1942)
    • 6º Reggimento bersaglieri (a partire dal 15/3/1942)
    • 120º Reggimento artiglieria motorizzato (a partire dal 15/3/1942)

    COMANDO AVIAZIONE DEL CSIR

    • 22° Gruppo autonomo Caccia Terrestri (su 4 squadriglie)
    • 61° Gruppo autonomo Osservazione aerea (su tre squadriglie)
    • Sezione trasporti (su due squadriglie)

    L’A.R.M.I.R.

    Nel maggio 1942 Mussolini decise che il contributo italiano in Russia doveva essere potenziato. Il generale Messe si oppose fermamente all’idea: preferiva un corpo di spedizione piccolo ma con grande mobilità, ben equipaggiato e addestrato, a una grande armata dotata di mezzi insufficienti e inadeguati. Il Duce fu irremovibile: secondo il suo punto di vista l’ARMIR avrebbe avuto tutto un altro peso rispetto al CSIR sul tavolo delle trattative di pace. Anche per questo contrasto Messe non ricevette il comando della nuova armata, che fu assegnata al generale Italo Gariboldi, ma rimase in Russia con il suo CSIR, ridenominato con l’occasione XXXV Corpo d’Armata.

    L’ARMIR, Armata Italiana in Russia, divenne operativa dal luglio 1942. La componeva, oltre ai reparti dello CSIR già schierati, il Corpo d’Armata alpino con tre divisioni (Tridentina, Julia e Cuneense) ed il II Corpo d’Armata con 3 divisioni di fanteria (Sforzesca, Ravenna e Cosseria). C’erano poi la divisione Vicenza, il raggruppamento a cavallo Barbò e numerose altre unità minori direttamente dipendenti dal comando d’Armata, per un totale di circa 230.000 uomini con oltre 20.000 veicoli, 25.000 quadrupedi e 940 cannoni.

    Le prime azioni operative spettarono alla Tridentina, alla fine di agosto. Proprio in questo periodo l’ARMIR venne posta alle dipendenze del Gruppo di Armate B tedesco e fu destinata alla protezione del fianco sinistro delle forze impegnate nella battaglia di Stalingrado. Si schierò lungo il bacino del Don tra la 2ª Armata ungherese a nord e la 6ª Armata tedesca (sostituita a fine settembre dalla 3ª Armata romena) a sud. Tra il 20 agosto 1942 e il 1º settembre le truppe sovietiche scatenarono un’offensiva di vaste proporzioni contro i reparti ungheresi, tedeschi e italiani (che subirono il peso maggiore dell’attacco) schierati nell’ansa settentrionale del Don. L’offensiva venne arrestata, sebbene con difficoltà e subendo gravi perdite. Soprattutto la Sforzesca, che fu travolta da ben tre divisioni nemiche, venne decimata. In questa occasione molti reparti intervennero in soccorso della divisione di fanteria in difficoltà, e la cavalleria italiana effettuò numerose cariche contro i Russi, tra le quali leggendaria rimase quella del Savoia a  Isbuscenskij. Settembre e ottobre trascorsero in relativa tranquillità, con le truppe italiane disposte a difesa di un tratto di fronte lungo circa 270 km.

    Il 19 novembre l’Armata Rossa aveva lanciò una massiccia offensiva volta ad accerchiare la 6ª Armata tedesca impegnata a Stalingrado. L’azione portò anche all’annientamento della 3ª Armata romena, schierata a sud-est dell’ARMIR. All’alba del 16 dicembre un’altra offensiva sovietica (operazione Piccolo Saturno) si scatenava contro le linee tenute dal II Corpo d’Armata, che teneva il settore centrale del fronte italiano. Il piano non colse di sorpresa i reparti italiani, visto che già dall’11 dicembre erano in corso scaramucce e piccoli scontri lungo il fronte. Il primo attacco fu respinto, ma il 17 dicembre i sovietici impiegarono le loro truppe corazzate e l’aviazione, travolgendo le linee della Ravenna e obbligandola alla ritirata. L’obiettivo della grande manovra sovietica era di congiungere le due braccia della tenaglia, costituite da potenti gruppi corazzati, alle spalle dello schieramento italo-tedesco-rumeno. Gariboldi tentò di tappare le varie falle spostando reparti dove fosse necessario, ma il ripiegamento senza preavviso della 298ª divisione germanica, posizionata al centro dello schieramento, rese la situazione ancora più drammatica. Il 21 dicembre le due colonne russe provenienti da nord e da est si incontrarono a Degtevo, chiudendo di fatto il XXXV Corpo d’armata italiano e il XXIX Corpo d’Armata tedesco in un’immensa sacca.

    Quasi prive di mezzi di trasporto, costrette a vagare a piedi in cerca di una via di scampo, le divisioni di fanteria dell’ARMIR finirono in gran parte annientate, falcidiate dalla fame, da un freddo polare, dagli attacchi delle colonne corazzate nemiche e dei reparti partigiani che agivano alle loro spalle.

    L’offensiva sovietica non coinvolse per il momento il Corpo d’Armata alpino, che continuò a tenere le sue posizioni sul Don. La Julia si dissanguò in continui combattimenti per mantenere il fronte. Intanto l’Armata Rossa si apprestava per la seconda fase dello sfondamento: il grande fiume russo, ormai coperto di ghiaccio resistente e quindi transitabile anche per i carri armati, non era più quel grande ostacolo naturale che fino ad allora aveva protetto tanto validamente gli alpini.

    Il 12 gennaio 1943 i sovietici diedero il via alla seconda fase dell’offensiva, travolgendo la 2ª Armata ungherese, schierata a nord del Corpo d’Armata alpino. Il giorno seguente investirono i resti delle fanterie italiane schierate insieme al XXIV Corpo d’Armata tedesco. Il Corpo d’Armata alpino rimase chiuso in una sacca che includeva, oltre che alle tre alpine, anche la divisione Vicenza. L’ordine di ripiegare dal Don venne dato solo il 17 gennaio, con molto ritardo. Delle 4 divisioni solo una, la Tridentina, riuscì a rompere l’accerchiamento, seppure fortemente dissanguata. Delle altre unità riuscirono a rientrare solo poche migliaia di uomini, per lo più sbandati.

    Con la sostanziale distruzione dell’ARMIR ebbe di fatto termine la partecipazione italiana alla campagna sul fronte orientale. Solo poche unità minori rimasero operative, alle dipendenze dirette della Wehrmacht.Tra il 30 luglio 1942 e il 10 dicembre 1942 l’ARMIR ebbe 3.216 morti e dispersi e 5.734 fra feriti e congelati. Per quanto riguarda le perdite durante la battaglia sul Don e la ritirata, le cifre ufficiali parlano di 84.830 militari che non rientrarono nelle linee tedesche, e che furono indicati come dispersi, oltre a 29.690 feriti e congelati che riuscirono a rientrare. Le perdite ammontarono quindi a 114 520 militari su 230 000. Difficile dire in quanti caddero nei combattimenti e quanti vennero catturati ed avviati ai campi di prigionia; resta il fatto che degli 84.830 dispersi  solo in 10.030 fecero ritorno in Italia dopo la guerra. Oltre alle gravi perdite umane, quasi tutto l’armamento fu lasciato sul campo: andarono perduti il 97% dei cannoni, il 76% di mortai e mitragliatrici, il 66% delle armi individuali, l’87% degli automezzi e l’80% dei quadrupedi.

    Gli Alpini in Russia

    Alla campagna di Russia è indissolubilmente legata la figura dell’alpino. Anche se con il CSIR e l’ARMIR ci furono pure fanti, bersaglieri, cavalieri, genieri, artiglieri, la figura del soldato con il cappello di feltro, la penna ed il pastrano coperti di neve in marcia nella steppa sconfinata è divenuta un’icona nell’immaginario collettivo.

    I primi alpini giunsero in Russia nel febbraio 1942: era un battaglione sciatori, il Cervino, che fu mandato di rinforzo al CSIR. Il grosso giunse tuttavia con il Corpo d’Armata alpino, che entrò in linea assieme all’ARMIR in luglio e che contava su una forza di circa cinquantasettemila uomini scelti e addestrati ad operare in territori montagnosi e impervi. Formato da tre divisioni, la Tridentina, la Julia, e la Cuneense, il Corpo d’Armata alpino era stato costituito con l’idea di impiegarlo sulle montagne del Caucaso. In realtà, la sola cosa che gli alpini troveranno di familiare nella steppa sarà la neve.

    Le tre divisioni alpine furono schierate lungo le sponde del Don, sull’ala sinistra del settore di competenza dell’ARMIR e a fianco della II Armata ungherese: dovevano tenere un fronte lungo ben 70 chilometri. In autunno si lavorò alacremente per rinforzare e rendere il più confortevoli possibili le postazioni difensive in previsione dell’imminente arrivo dell’inverno. I lavori furono ottimi per tenere impegnati gli uomini, ma le opere realizzate si rivelarono di scarsa utilità: il 15 dicembre i Sovietici sfondarono altrove e accerchiarono gli Italiani. Inizialmente gli alpini mantennero le posizioni, ricacciando gli assalitori da ogni direzione questi attaccasero, poi, ricevuto l’ordine di ripiegare per evitare l’annientamento, dopo un mese di aspri combattimenti il 15 gennaio 1943 iniziarono la ritirata. A questo punto solo la Tridentina era rimasta efficiente ed in grado di combattere. I resti della Cuneense e della Julia rimasero indietro ed il 27 gennaio furono quasi totalmente catturate assieme a quanto rimaneva della divisione Vicenza a Waluiki. La Tridentina invece riuscì a sfondare la sacca a Nikolajewka, seppure con perdite gravissime.

    Dopo una marcia di 200 chilometri nella neve durata 15 giorni e costellata di innumerevoli combattimenti, i superstiti raggiunsero finalmente le linee amiche. Il 31 gennaio i resti del del Corpo d’Armata alpino giunsero a Schebekino. I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali, alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio. Gli uomini ancora in grado di farlo si rimisero in cammino e giunsero a Gomel il primo di marzo, dopo una lunga marcia nella neve ed a temperature costantemente sotto lo zero. Dei 57.000 alpini che erano partiti, solo in 11.000 fecero ritorno in Italia: 6.400 erano della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense.

    REPARTI ALPINI CHE OPERARONO IN RUSSIA

    Alle dipendenze del Comando d’Armata:

    • Battaglione alpini sciatori “Monte Cervino”

    Alle dipendenze del Corpo d’Armata alpino:

    • 2ª Divisione alpina “Tridentina”
      • 5º Reggimento alpini
      • Battaglione Morbegno
      • Battaglione Tirano
      • Battaglione Edolo
      • 6º Reggimento alpini
      • Battaglione Vestone
      • Battaglione Val Chiese
      • Battaglione Verona
      • 2º Reggimento artiglieria alpina
      • Gruppo Bergamo
      • Gruppo Vicenza
      • Gruppo Val Camonica
    • 3ª Divisione alpina “Julia”
      • 8º Reggimento alpini
      • Battaglione Tolmezzo
      • Battaglione Gemona
      • Battaglione Cividale
      • 9º Reggimento alpini
      • Battaglione Vicenza
      • Battaglione L’Aquila
      • Battaglione Val Cismon
      • 3º Reggimento artiglieria alpina
      • Gruppo Conegliano
      • Gruppo Udine
      • Gruppo Val Piave
    • 4ª Divisione alpina “Cuneense”
      • 1º Reggimento alpini
      • Battaglione Ceva
      • Battaglione Pieve di Teco
      • Battaglione Mondovì
      • 2º Reggimento alpini
      • Battaglione Borgo San Dalmazzo
      • Battaglione Dronero
      • Battaglione Saluzzo
      • 4º Reggimento artiglieria alpina
      • Gruppo Pinerolo
      • Gruppo Mondovì
      • Gruppo Val Po

    L’Armata Rossa

    Nel 1941 i cittadini sovietici idonei al servizio militare obbligatorio erano circa 25 milioni. La leva aveva una durata di due anni e l’addestramento era molto approssimativo. Inizialmente l’esercito regolare comprendeva circa 9 milioni di uomini di cui quasi la metà schierata nella parte occidentale dell’URSS. L’Oprazione Barbarossa sorprese l’Armata Rossa in piena fase di riorganizzazione, dopo le gravi lacune venute alla luce durante la Guerra d’Inverno contro la Finlandia.

    L’attacco colse l’esercito sovietico totalmente impreparato: in pochi mesi subì perdite devastanti, nell’ordine dei milioni di uomini morti o prigionieri. Mentre la Wehrmacht era in piena avanzata, fu creato uno Stato Maggiore Generale (Stavka) sotto il diretto controllo di Stalin. Lo Stavka mise i distretti militari sotto un controllo politico centralizzato e potè organizzare con estrema efficacia lo sfruttamento delle risorse nazionali; tuttavia la sua funzione principale fu quella di coordinare tutte le forze in Unione Sovietica. Nel contempo, si iniziarono ad accantonare riserve strategiche destinate ai contrattacchi da sferrare non appena se ne fosse presentata l’opportunità.

    Nel 1941 l’esercito sovietico era organizzata in armate formate da circa 12 divisioni, per un totale che poteva superare i 200.000 uomini; successivamente, per renderle più maneggevoli, la loro consistenza fu ridotta a 8 divisioni. Con il procedere della guerra l’Armata Rossa si ingrandì sempre di più, tanto che nel 1944 le Armate schierate dal Baltico al mar Nero erano ben 48. La grande unità di base dell’Armata Rossa era la divisione fucilieri. Dopo le dure lezioni degli inizi, le sue dimensioni vennero ridotte, ma ne venne accresciuta la potenza di fuoco: vennero aumentate le dotazioni di mortai e cannoni, ma soprattutto ben 2000 uomini vennero dotati di mitra, efficacissimi nei combattimenti ravvicinati. La “punta di lancia” era costituita dalle truppe corazzate, che a partire dal 1943 vennero racchiuse in armate. Anche l’artiglieria, a parte le unità divisionali che avevano scarso valore, era concentrata in divisioni specializzate.

    A differenza della maggioranza degli eserciti che combatterono nella seconda guerra mondiale, il sistema dei rimpiazzi non era previsto. L’unità che subiva perdite in battaglia non riceveva rinforzi dalle retrovie ma continuava a combattere fino al totale annientamento o fino a che non veniva ritirata dal fronte per essere sciolta o ricostituita. Le reclute costituivano nuove divisioni che venivano inviate al fronte a ranghi completi. Il risutato di questa politica è che una divisione di nome, se in linea da molto tempo, poteva avere grande esperienza ma la forza di un reggimento o anche meno.

    Un’altra caratteristica dell’Armata Rossa era la presenza di unità della “Guardia”: si trattava questo di un titolo onorifico concesso a quei reparti che si erano particolarmente distinti sul campo. In pratica si trattava di unità d’élite, che in quanto tali, ricevevano anche un equipaggiamento migliore. Il grado di efficienza di una divisione della Guardia era considerato pari a quello di una divisione di fanteria tedesca.

    Il servizio rifornimenti era piuttosto scadente, e cronica la mancanza di mezzi a motore. A questo problema ovviarono in parte gli aiuti anglo-americani, che a partire dal 1943 contribuirono con mezzo milione di mezzi a motore.

    E’ stato calcolato che durante la seconda guerra mondiale siano morti 13.700.000 soldati sovietici.

    Alcune celebri immagini del disastro italiano in Russia

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