6th Armoured Division: i sudafricani in Italia e sulla Gotica

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6th Armoured Division (1944–1945)

I Sudafricani nella Campagna d’Italia, in Toscana e sulla Gotica

Quando, nella primavera del 1944, la 6th South African Armoured Division (6ª Divisione Corazzata Sudafricana) mise piede sul suolo italiano, pochi avrebbero immaginato che questa giovane formazione, nata solo l’anno prima tra le sabbie d’Egitto, sarebbe diventata protagonista assoluta della campagna nella penisola. Conosciuta semplicemente come The Division all’interno delle forze sudafricane, essa fu l’unica grande unità corazzata di qual paese impiegata durante la Seconda Guerra Mondiale. Composta interamente da volontari, con reparti provenienti non solo dal Sudafrica ma anche dalla Rhodesia meridionale e da altri domini del Commonwealth, la Divisione rappresentava un corpo d’armata nuovo, moderno, e allo stesso tempo fragile, segnato dalle difficoltà politiche e sociali del paese d’origine.

Dopo un lungo addestramento nel deserto, i sudafricani furono lanciati nell’avanzata che seguì la battaglia di Cassino e lo sfondamento della Linea Gustav. Nel giro di poche settimane entrarono a Paliano, parteciparono alla liberazione di Roma, combatterono a Celleno e Bagnoregio, conquistarono Orvieto e furono impegnati nei sanguinosi combattimenti di Chiusi. Nell’estate del 1944 la Divisione avanzò nel cuore del Chianti, liberò Firenze nella notte del 4 agosto e, pochi giorni più tardi, riprese l’inseguimento dei tedeschi in ritirata verso l’Appennino, coprendosi di onore.

Fu proprio sulle montagne toscane ed emiliane che la 6th South African Armoured Division conobbe la guerra più dura: demolizioni, piogge torrenziali, trincee nemiche fortificate. A Castiglione dei Pepoli e lungo la Strada Statale 64, contro la 16ª Divisione SS “Reichsführer” i sudafricani combatterono una guerra di logoramento che durò mesi. Solo con l’Offensiva di Primavera del 1945 la Divisione riuscì a riprendere la marcia, conquistando Monte Sole e Monte Caprara, aprendo la via verso Bologna e partecipando infine alla corsa di liberazione nella Pianura Padana fino a Milano e Treviso.

Al termine del conflitto, con più di 3.500 perdite tra morti, feriti e dispersi, la 6th South African Armoured Division lasciò un segno profondo nella memoria italiana. La sua vicenda militare rappresenta uno dei capitoli meno noti, ma di grande valore simbolico, della Campagna d’Italia: una forza proveniente dal lontano emisfero australe che contribuì, con sacrificio e determinazione, al crollo della Linea Gotica e alla liberazione del nostro Paese. Grazie Springboks.

Origini e formazione della 6th South African Armoured Division

L’idea di creare una Divisione Corazzata Sudafricana prese corpo tra le sabbie del deserto nordafricano, quando la guerra contro l’Afrika Korps aveva mostrato con brutalità quanto fosse rischioso dipendere sempre da altri per la componente meccanizzata. Già nell’aprile del 1941, il generale George Brink, comandante della 1ª Divisione di Fanteria Sudafricana, e il primo ministro Jan Smuts, convinto sostenitore della causa alleata e feldmaresciallo onorario britannico, discussero a lungo sull’opportunità di dotare il Sudafrica di un’unità corazzata autonoma. Non si trattava di un capriccio, ma di una necessità: nei vasti spazi del deserto, dove il carro armato era il vero arbitro della battaglia, i sudafricani si trovavano spesso a combattere fianco a fianco con le divisioni corazzate britanniche senza avere la possibilità di incidere in maniera decisiva. L’assenza di una propria divisione corazzata significava restare un passo indietro, relegati a ruoli di supporto.

Eppure, la questione non era solo militare. Sullo sfondo pesava la fragilità politica dell’Unione Sudafricana. Un Paese spaccato tra anglofoni lealisti e afrikaner, molti dei quali guardavano con sospetto all’impegno bellico al fianco della Gran Bretagna. Per legge, le truppe inviate oltre i confini dell’Africa potevano essere composte solo da volontari. Una regola che divenne presto un ostacolo, perché le perdite si moltiplicavano mentre il numero dei volontari calava inesorabilmente. La disfatta di Tobruch (giugno 1942), con la cattura di oltre 10.000 sudafricani della 2ª Divisione, rese il problema ancora più drammatico. Tenere in campo due Divisioni di fanteria appariva insostenibile. Smuts e i suoi generali compresero che la soluzione era trasformare ciò che restava delle brigate sudafricane in un’unica, grande divisione corazzata: meno uomini, ma più mezzi; meno fanteria, ma maggiore potenza di fuoco.

Dopo la vittoria di El Alamein (ottobre–novembre 1942), la 1ª Divisione Sudafricana venne ritirata dal fronte e smembrata. La sua 1ª Brigata fu rimpatriata per costituire il nucleo di una Divisione corazzata autonoma, mentre la 2ª e la 3ª rimasero in Egitto con lo stesso scopo. Ma all’inizio del 1943, con la decisione alleata presa alla Conferenza di Casablanca di portare la guerra in Sicilia e in Italia, i piani cambiarono di nuovo. Non servivano più due divisioni corazzate, e le croniche carenze di personale imposero una scelta drastica. La 1ª Divisione Corazzata Sudafricana fu accantonata, e tutti gli sforzi confluirono sulla nascita di un’unica unità, la 6th South African Armoured Division. Il comando fu affidato al maggior generale William Henry Evered Poole, ufficiale pragmatico e rispettato, capace di tenere insieme un mosaico complesso di reparti. La Divisione fu attivata il 1º febbraio 1943 e tre mesi più tardi lasciò Durban alla volta del Canale di Suez.

La sua struttura era quella tipica delle Divisioni Corazzate Britanniche: due brigate principali, l’11ª corazzata e la 12ª motorizzata, supportate da reggimenti d’artiglieria, reparti del genio e servizi logistici. Ma ciò che rendeva la 6ª Divisione un unicum era la sua composizione: accanto agli uomini provenienti dal Sudafrica, vi erano volontari della Rhodesia meridionale, personale dei Cape Corps e degli Indian and Malay Corps, relegati per le leggi dell’epoca a mansioni di supporto (autisti, barellieri, cuochi), ma senza i quali la macchina bellica non avrebbe potuto funzionare.

Per simbolo la Divisione adottò un triangolo giallo inscritto in un triangolo blu: un segno semplice, destinato a campeggiare sulle torrette dei carri Sherman e sui blindati che avrebbero solcato l’Italia centrale. Fu anche la prima volta che i sudafricani, raccolti in un’unica grande unità corazzata, sentirono di avere un’identità operativa distinta: nelle memorie e nei documenti dell’epoca la 6ª Divisione era citata semplicemente come “the Division”, mentre per l’opinione pubblica sudafricana i suoi uomini erano gli Springboks, come l’antilope simbolo nazionale. Nata nel deserto, forgiata da mesi di addestramento e dalla necessità politica, la 6th South African Armoured Division si preparava così a un destino inatteso: non più le dune del Sahara, ma le valli, le città e le montagne d’Italia, dove il suo nome sarebbe rimasto inciso nella storia della liberazione.

Addestramento in Egitto e arrivo in Italia

Dopo la sua costituzione ufficiale, la 6th South African Armoured Division intraprese un lungo periodo di preparazione tra le sabbie e le pietraie d’Egitto. La meta era il campo di addestramento di Khataba, a nord-ovest del Cairo, dove i sudafricani si cimentarono con ciò che costituiva il cuore della nuova guerra moderna: il carro armato. Qui, tra i depositi e le officine dell’Ottava Armata britannica, arrivarono i primi M4 Sherman, destinati a diventare l’icona corazzata della Divisione, affiancati da carri leggeri Stuart, da veicoli corazzati di ricognizione e da un parco meccanico imponente che richiese uno sforzo logistico senza precedenti per uomini provenienti da un Paese ancora in larga parte agricolo e rurale. L’integrazione dei reparti rhodesiani e delle unità di supporto avvenne nello stesso periodo. Squadroni e batterie di artiglieria amalgamati con i sudafricani, in una convivenza non priva di difficoltà, ma necessaria per sopperire alla cronica carenza di volontari.

L’addestramento non si limitava alla tecnica dei mezzi. Si svolgevano manovre combinate tra fanteria motorizzata, corazzati e artiglieria, esercitazioni di posa di ponti Bailey da parte del genio e simulazioni di combattimento in terreni collinari, per prepararsi non solo al deserto ma anche a scenari europei. La Divisione veniva progressivamente plasmata in una forza capace di agire come un tutt’uno, in cui i movimenti dei carri, l’appoggio delle artiglierie e l’avanzata della fanteria si coordinavano in un unico respiro. Il ciclo culminò tra dicembre 1943 e gennaio 1944 con una serie di grandi manovre: l’“Exercise Cape Town” per l’11ª Brigata Corazzata, l’“Exercise Durban” per la 12ª motorizzata e infine l’“Exercise Tussle”, un’operazione combinata sotto il comando del III Corpo Britannico, che simulava un’offensiva su larga scala. Quando il 21 gennaio le esercitazioni si conclusero, la Divisione aveva dimostrato di poter manovrare con efficienza, ma il suo destino rimaneva incerto. Per settimane, infatti, le autorità alleate discussero su dove impiegarla. In un primo momento, a marzo 1944, fu ordinato il trasferimento in Palestina: il timore era che la Divisione, pur ben addestrata, non fosse necessaria in Italia e che potesse invece servire come forza di presidio nel Medio Oriente. Ma il 12 marzo, all’improvviso, l’ordine fu revocato: la 6th South African Armoured Division avrebbe seguito il corso principale della guerra, destinata non più a compiti statici ma a un fronte vivo e drammatico.

Il 14 aprile 1944 cominciò l’imbarco ad Alessandria. Colonne di Sherman, artiglierie trainate, camion, jeep e blindati furono caricati sulle navi dirette verso l’Italia meridionale. Le partenze si susseguirono fino al 16 aprile, quando le ultime unità lasciarono l’Egitto. Il viaggio fu rapido e, il 20–21 aprile, la Divisione sbarcò a Taranto, nel cuore del Salento, accolti dal panorama delle mura aragonesi e dal ponte girevole che separa il Mar Piccolo dal Mar Grande. Era un arrivo che segnava un passaggio simbolico: dopo un anno di addestramento e di incertezze, gli Springboks mettevano piede nella penisola che sarebbe diventata il loro campo di battaglia per i successivi dodici mesi.

La concentrazione della Divisione avvenne nella zona compresa tra Altamura, Matera e Gravina di Puglia, un territorio fatto di muretti a secco e colline brulle, dove i sudafricani si acclimatarono alle condizioni italiane e attesero le disposizioni operative. Non passò molto prima che giungessero i primi ordini: la 12ª Brigata motorizzata, con i suoi reparti d’artiglieria e di supporto, venne inviata sul fronte di Cassino, a sostituire l’11ª Brigata canadese. Era il 6 maggio 1944, e i sudafricani si trovarono improvvisamente catapultati in prima linea, tra le macerie e le montagne che avevano già inghiottito migliaia di vite. Per la Divisione fu il battesimo del fuoco in Italia. Un inizio non meno difficile di quanto avrebbero incontrato, poche settimane dopo, lungo le strade del Lazio e della Toscana.

Dopo Cassino: l’avanzata su Roma e il battesimo del fuoco

Quando la 6th South African Armoured Division sbarcò a Taranto nell’aprile del 1944, la battaglia di Cassino stava vivendo le sue ultime fasi. Il fronte era bloccato da mesi lungo la Linea Gustav, un muro di cemento e acciaio che correva dal Tirreno all’Adriatico. Il contributo iniziale dei sudafricani fu immediato. La 12ª Brigata motorizzata, agli ordini del brigadiere R.J. Palmer, fu staccata dal resto della Divisione e inviata a nord di Cassino, nella zona montuosa di Sant’Elia, per rilevare l’11ª Brigata canadese. Entrata in linea il 6 maggio 1944, rimase sotto il comando della 2nd New Zealand Division nel X Corpo britannico fino al 23 maggio, quando, dopo la caduta di Montecassino e la rottura del fronte, poté ricongiungersi al grosso della Divisione. Per i sudafricani fu un banco di prova durissimo. Per la prima volta affrontarono le condizioni del fronte italiano: la montagna aspra, le mulattiere fangose, i villaggi ridotti in macerie, le postazioni nemiche mimetizzate tra i ruderi. A Cassino non si trattava di manovrare colonne di carri, ma di resistere sotto il fuoco dei mortai, pattugliare la linea e sostenere i contrattacchi tedeschi. Quei giorni temprarono uomini e ufficiali, che compresero presto come la guerra in Italia fosse un conflitto diverso dal deserto: lento, logorante, fatto di piccoli avanzamenti pagati a caro prezzo.

La Divisione al completo si trovò in azione poche settimane dopo, durante la grande offensiva alleata che, sfruttando lo sfondamento a Cassino e la rottura del fronte di Anzio, spinse le armate verso Roma. Per completare l’organico, il 20 maggio 1944 la 6th SA Armoured Division ricevette sotto il suo comando la 24th Guards Brigade, formata da reparti britannici di élite – Scots Guards, Coldstream Guards e Grenadier Guards – guidati dal brigadiere A.F.D. Clive. La presenza delle Guardie garantì prestigio e maggiore peso operativo. Da quel momento la Divisione disponeva di tre brigate, come previsto dallo standard britannico.

Il 28 maggio la Divisione fu trasferita dal ruolo di riserva al fronte operativo, assegnata al I Canadian Corps. Lo sfondamento ormai era in atto: gli americani della 5ª Armata avanzavano verso Roma, e il compito dei sudafricani era di risalire la Via Casilina, colpendo le retroguardie tedesche. Il 3 giugno 1944 arrivò il battesimo del fuoco per l’intera Divisione. La 24th Guards Brigade prese Piglio, mentre la 12ª Brigata motorizzata entrò a Paliano, nel cuore della Ciociaria. Qui, i sudafricani affrontarono i primi veri scontri in campo aperto contro i reparti tedeschi in ritirata, protetti da carri armati e cannoni da 88 mm. Fu un combattimento rapido e violento, in cui i genieri sudafricani furono chiamati a ripristinare strade e ponti fatti saltare dal nemico.

L’avanzata proseguì senza soste. Il 6 giugno 1944, mentre a ovest le truppe americane entravano a Roma, la 6th South African Armoured Division, ora inquadrata nel XIII Corpo britannico, attraversava la capitale lungo la via Prenestina e la Casilina. In quella giornata storica i sudafricani si trovarono sul fianco sinistro dell’VIII Armata, con il compito di puntare verso nord, tra il Tevere a est e il lago di Bolsena a ovest. La marcia fu impressionante: fino a 16 chilometri al giorno, superando demolizioni e imboccando strade secondarie, spesso più veloci dei reparti alleati schierati sui fianchi.

Fu così che, nella notte del 6 giugno, gli elementi avanzati della Divisione raggiunsero Civita Castellana. Da lì iniziava una nuova fase: la corsa verso Viterbo e la Tuscia, dove i tedeschi, sorpresi dalla rapidità della manovra, tentarono disperatamente di organizzare linee di resistenza. Per gli Springboks era la vera prova. Dopo mesi di addestramento e settimane di attesa, finalmente potevano dimostrare sul campo il proprio valore: non più una formazione di riserva, ma una forza corazzata pronta a incidere nelle sorti della campagna d’Italia.

Da Celleno a Chiusi: dieci giorni di avanzata e la prima battuta d’arresto

L’avanzata della 6th South African Armoured Division dopo Roma fu rapida ma non indolore. Il terreno dell’alto Lazio, con i suoi fiumi, le sue colline tufacee e i borghi fortificati, offriva ai tedeschi posizioni naturali di resistenza. Dopo Civita Castellana, i sudafricani si trovarono davanti a un ostacolo imprevisto: un ponte fatto saltare nei pressi di Viterbo, difeso da fanteria tedesca e da tre carri Tiger I. Fu il primo vero banco di prova.

Nella notte tra l’8 e il 9 giugno 1944, mentre l’artiglieria sudafricana e britannica martellava le posizioni nemiche, gli uomini del genio della 8th Field Squadron iniziarono a costruire un passaggio improvvisato sotto il fuoco dei mortai. Quando la struttura cedette, furono costretti a ripiegare. Solo inserendo un ponte Bailey all’interno del manufatto riuscirono, alle prime ore del 10 giugno, a stabilire un ponte di barche e travi sufficientemente solido per far passare i corazzati.

Appena oltre la nuova testa di ponte, la Divisione si scontrò con le avanguardie della 356. Infanterie-Division tedesca, fresca di trasferimento da Genova, ma già supportata da reparti di paracadutisti della 4. Fallschirmjägerdivision, granatieri corazzati della 3. Panzergrenadierdivision e carri della 26. Panzerdivision. Per i sudafricani fu un impatto violento. I carri della Natal Mounted Rifles caddero sotto il fuoco anticarro e due Sherman furono distrutti, con la perdita completa degli equipaggi.

Il 10 giugno 1944 segnò il battesimo del fuoco della Divisione in campo aperto. Fu la battaglia di Celleno. Il colonnello C. E. G. Britz, comandante del Special Service Battalion, ordinò un attacco frontale con il supporto dei fanti dell’Imperial Light Horse/Kimberley Regiment. I carri avanzarono tra i campi di grano e i filari di gelsi, mentre le mitragliatrici tedesche aprivano il fuoco da case coloniche trasformate in fortini. I sudafricani si lanciarono all’assalto in pieno giorno, senza attendere la completa preparazione d’artiglieria: fu una scelta audace, che colse i tedeschi di sorpresa. Le perdite furono dure — 53 uomini caduti in poche ore — ma i sudafricani riuscirono a neutralizzare almeno cinque cannoni da 88 mm, sedici pezzi da 50 mm, e distrussero vari carri nemici. Il combattimento proseguì fino a sera, quando i tedeschi si ritirarono verso nord, abbandonando Celleno. Per gli Springboks fu la prima vittoria in Italia, ricordata nelle cronache come la battaglia che diede alla Divisione la sua identità di corpo combattente.

L’offensiva non si fermò. Nei giorni successivi la Divisione puntò su Bagnoregio e Orvieto. Il 12 giugno, dopo duri scontri, il Royal Natal Carbineers entrò a Orvieto, mentre la 24th Guards Brigade e i corazzati del Pretoria Regiment presero possesso della città. In dieci giorni la Divisione aveva percorso più di 120 chilometri, avanzando con una rapidità che metteva in crisi le retroguardie tedesche.

Ma la prima vera battuta d’arresto si verificò poco dopo, a Chiusi. Questo borgo toscano, costruito su terrazze e circondato da alture, era difeso dai paracadutisti della 1. Fallschirm-Panzer-Division “Hermann Göring”. Dal 21 al 26 giugno 1944 i sudafricani tentarono di conquistarla, affrontando pioggia torrenziale, strade franate e una difesa accanita. Una compagnia del Cape Town Highlanders rimase tagliata fuori e, dopo una notte di combattimento, fu costretta ad arrendersi il 22 giugno. Un episodio che ferì l’orgoglio nazionale sudafricano, ancora scosso dal trauma della resa di Tobruch di due anni prima.

Alla fine, con l’intervento di divisioni britanniche sul fianco, Chiusi cadde il 26 giugno, mentre i sudafricani conquistavano Sarteano. Ma le perdite e la durezza degli scontri lasciarono un segno profondo. Il primo mese di campagna aveva mostrato chiaramente come l’Italia non fosse terreno di rapide manovre, ma di una guerra lenta, fatta di demolizioni, alture presidiate e pioggia che trasformava le strade in fango. Gli Springboks avevano tuttavia dimostrato il loro valore: avevano vinto a Celleno, erano entrati a Orvieto, e avevano tenuto il fronte a Chiusi. Il prezzo era stato alto, ma il cammino verso la Toscana e Firenze era assicurato, anche se mancavano ancora da percorrere circa 100 chilometri di imboscate e combattimenti.

Verso Firenze: Dal Trasimeno, al Chianti, all’Arno

Dopo la caduta di Chiusi, la 6th South African Armoured Division riprese la marcia verso nord. Il nemico non era disposto a cedere il cuore della Toscana senza combattere: dietro la Linea Gustav e la Linea Hitler, i tedeschi avevano predisposto una nuova cintura difensiva, la cosiddetta Linea Albert o del Trasimeno, che correva dal lago Trasimeno fino a Cortona e Montepulciano. Era una linea di rallentamento, non una vera muraglia, ma sufficiente per guadagnare tempo e permettere alle divisioni tedesche di assestarsi sul successivo sbarramento, la Linea Georg, nel Chianti.

La rottura della Linea del Trasimeno. A fine giugno 1944, i sudafricani, schierati sul fianco sinistro del XIII Corpo britannico, avanzarono lungo strade secondarie tra Montepulciano e Chianciano. Il 28 giugno, dopo duri scontri a fuoco, riuscirono a forzare le posizioni tedesche, mentre la 24th Guards Brigade prendeva Chianciano e la 12ª Brigata motorizzata spingeva i paracadutisti nemici oltre il lago di Montepulciano. In quella fase le perdite furono contenute, ma le demolizioni costrinsero i genieri sudafricani a costruire più di 12 ponti Bailey in due settimane, per permettere il passaggio dei corazzati.

Dalla Valdichiana ad Arezzo. La Valdichiana era infida poiché pianeggiante ma circondata da medie colline che favorivano la difesa. L’avanzata fu lenta, preceduta da eccidi di civili che prepararono il presidio del territorio dei tedeschi. Soldati della 15. Panzergrenadier-Division, rinforzati da elementi della 4. Fallschirmjäger-Division, seppero sfruttare al meglio il vantaggio. Il 6 luglio 1944, la Divisione sudafricana attaccò le alture di Monte Lignano, alle spalle di Siena. Le brigate sudafricane furono impegnate in un fronte di oltre 16 chilometri. I fanti del Natal Mounted Rifles e del Cape Town Highlanders dovettero avanzare a piedi, spesso senza copertura corazzata, tra le vigne e i terrazzamenti minati. Le mitragliatrici MG42 falciavano i reparti in campo aperto, costringendo i sudafricani a ripiegare più volte. Solo con il supporto dei neozelandesi e dell’artiglieria a lunga gittata gli Springboks riuscirono, il 15 luglio, a spezzare la resistenza e a costringere i tedeschi al ripiegamento verso nord. Le perdite furono pesanti: oltre 200 caduti e feriti in meno di dieci giorni, e una decina di Sherman messi fuori uso, alcuni distrutti da cannoni anticarro da 75 mm, altri immobilizzati da mine.

Radda, Monte Maione e Monte San Michele. Con la rottura della Linea Georg, l’offensiva si spostò più a nord. Tra il 17 e il 20 luglio i sudafricani liberarono Radda in Chianti, dopo una marcia notturna in cui i fanti dovettero superare campi minati a passo lento, accompagnati da genieri che sondavano il terreno con le baionette. La 24th Guards Brigade conquistò Monte Maione, mentre la 12ª Brigata motorizzata prese d’assalto le alture di Monte San Michele. Questi scontri furono ricordati dai veterani come tra i più duri della campagna: il terreno ripido, la resistenza dei paracadutisti tedeschi, le perdite continue. Molti carristi descrissero l’angoscia di vedere i propri mezzi trasformati in torce dopo un colpo di cannone da 88 mm. Un testimone sudafricano annotò: “Non combattevamo più nel deserto, dove potevi sempre manovrare. Qui, ogni collina era una fortezza, e il nemico vedeva noi molto prima che noi vedessimo lui”.

Greve, Mercatale e Impruneta. Il 24 luglio la 6th Divisione raggiunse Greve in Chianti, dove la 4. Fallschirmjäger-Division aveva allestito una difesa accurata sulle rive del torrente Greve. I sudafricani avanzarono lungo la Strada Statale 222 “Chiantigiana”, incontrando campi minati e barricate di tronchi. Il Pretoria Regiment, con i suoi carri Sherman, cercò di sfondare, ma fu accolto dal fuoco concentrato di cannoni da 88 mm e dal contrattacco di carri Tiger. Tre Sherman furono distrutti in pochi minuti, e solo l’intervento dell’artiglieria pesante della Divisione riuscì a contenere l’assalto tedesco. Il 27 luglio, dopo due giorni di combattimenti casa per casa, i sudafricani entrarono a Mercatale Val di Pesa. A fine mese i corazzati e la fanteria avanzarono verso Impruneta, conquistata il 3 agosto. Il fronte si trovava ormai a pochi chilometri da Firenze, che poteva essere raggiunta lungo la Cassia o dalla via che scendeva dal Chianti.

La liberazione di Firenze. Il 4 agosto 1944, alle prime ore del mattino, le pattuglie sudafricane dell’Imperial Light Horse/Kimberley Regiment raggiunsero le rive dell’Arno. Tutti i ponti erano stati minati e fatti saltare dai tedeschi, tranne uno: il Ponte Vecchio, risparmiato per ordine diretto di Kesselring, ma circondato da palazzi demoliti che ne ostruivano gli accessi. I soldati sudafricani furono i primi ad attraversarlo, mentre nelle strade del centro gli ultimi reparti tedeschi ripiegavano verso le colline di Fiesole. Molti civili, nascosti per settimane nei rifugi, uscirono cantando e abbracciando i liberatori. Alcuni veterani ricordarono la commozione di quelle ore: “Donne con fiori e bottiglie di vino ci venivano incontro, gridando ‘liberi, liberi!’. Non capivamo le parole, ma capivamo i sorrisi”.

Le perdite della Divisione, tra giugno e agosto 1944, ammontavano a 1.422 uomini tra morti, feriti e dispersi. I sudafricani avevano però conquistato, a prezzo di sangue, uno spazio decisivo per l’avanzata alleata: la via verso l’Appennino, ultima barriera prima della Pianura Padana.

Dall’Arno alla Linea Gotica

Con la liberazione di Firenze, la 6th South African Armoured Division non ebbe tregua. Le forze tedesche, pur arretrando, erano tutt’altro che sconfitte. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante supremo in Italia, aveva già predisposto una nuova linea di resistenza lungo la dorsale appenninica: la Linea Gotica. Per raggiungerla, i sudafricani dovevano risalire l’Arno, attraversare la piana di Pistoia e spingersi lungo la Strada Statale 64 Porrettana, l’unico asse percorribile per i mezzi corazzati verso Bologna.

Dall’Arno a Pistoia. Dopo aver consolidato le posizioni oltre Firenze, la Divisione ricevette l’ordine di muovere a ovest. A metà agosto 1944, la 12ª Brigata motorizzata avanzò verso Empoli, mentre la 24th Guards Brigade copriva il fianco destro lungo la valle del Greve. Le demolizioni tedesche erano ovunque: ponti crollati, strade minate, paesi evacuati. Il lavoro dei genieri diventò frenetico: nei primi venti giorni di agosto furono ripristinati oltre 30 ponti Bailey, alcuni dei quali di dimensioni record per la capacità di sostenere i carri Sherman. Il 10 agosto i sudafricani raggiunsero Pistoia, città devastata dai bombardamenti e abbandonata dai tedeschi. L’ingresso degli Springboks fu accolto con grande sollievo dai civili: qui, come altrove, la popolazione viveva nel terrore delle requisizioni e delle mine lasciate dai reparti tedeschi in ritirata. Testimonianze locali ricordano soldati sudafricani che dividevano il pane e il cioccolato con i bambini, in un momento di umanità che lasciò un segno duraturo di gratitudine.

L’ingresso in Appennino. Da Pistoia la strada si faceva più stretta e ripida. La Divisione doveva risalire verso Sambuca Pistoiese e il crinale appenninico. A fine agosto, gli Springboks passarono sotto il comando della 5th US Army del generale Mark Clark, venendo inquadrati nel IV Corpo statunitense. Era un passaggio importante: per la prima volta i sudafricani combattevano a fianco diretto degli americani, e il loro settore diventava cruciale per la futura offensiva. Le prime prove furono sanguinose. Tra il 28 agosto e il 6 settembre 1944, la 11ª Brigata corazzata e la 12ª Brigata motorizzata attaccarono le alture di Monte Acuto, Poggio Alto e Monte Pozzo del Bagno, punti chiave della linea difensiva tedesca. I combattimenti si svolsero sotto pioggia torrenziale, con strade franate e boschi minati. I carri Sherman, privi di spazio per manovrare, rimasero spesso intrappolati nel fango o sulle strade strette, diventando bersagli facili per i cannoni da 75 mm tedeschi. Le perdite furono pesanti: più di 500 uomini tra morti e feriti in meno di dieci giorni. Il Natal Mounted Rifles perse 11 carri in una sola giornata, mentre il Cape Town Highlanders dovette combattere casa per casa per strappare ai tedeschi il controllo dei villaggi.

Castiglione dei Pepoli e la guerra statica. Con l’arrivo dell’autunno, il fronte si cristallizzò. I sudafricani si trovarono bloccati lungo la Strada Statale 64, in corrispondenza di Castiglione dei Pepoli, nodo vitale per l’accesso alla valle del Reno. Qui la Divisione affrontò uno dei periodi più duri della sua campagna. Dal settembre 1944 al marzo 1945, la 6th South African Armoured Division combatté una guerra di logoramento: piogge incessanti trasformavano i fossati in torrenti, il fango immobilizzava i mezzi, la neve e il gelo riducevano le capacità operative. Le linee tedesche, tenute dalla 16. SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer-SS”, erano trincerate in profondità, con bunker in cemento, gallerie scavate nella roccia e postazioni perfettamente mimetizzate nei boschi. Ogni villaggio, ogni crinale diventava un caposaldo da conquistare metro per metro. I fanti sudafricani, appoggiati dai carri rimasti, scavavano trincee nel fango, vivevano per settimane sotto le tende fradice e affrontavano un nemico ostinato. Le perdite furono continue: imboscate notturne, colpi di mortaio, cecchini che falciavano pattuglie isolate.

La popolazione civile, rimasta intrappolata tra due fuochi, trovò nei sudafricani un sostegno. A Castiglione e nei villaggi vicini molti civili ricevettero assistenza medica dagli ospedali da campo sudafricani, e alcuni ufficiali autorizzarono distribuzioni di viveri e medicinali. Non mancarono però episodi di tensione: requisizioni forzate di bestiame e legname per l’inverno provocarono attriti con i contadini locali, ma la memoria collettiva restituì soprattutto l’immagine di una presenza rispettosa e solidale.

Bilancio dell’autunno 1944. A fine anno, la Divisione aveva subito oltre 2.000 perdite dall’inizio della campagna italiana, senza riuscire a superare l’Appennino. Ma la sua resistenza su un settore così difficile aveva permesso agli Alleati di consolidare il fronte e di prepararsi all’offensiva di primavera. Per i soldati sudafricani, l’Appennino fu sinonimo di sofferenza e logoramento: settimane di immobilità, combattimenti continui per crinali senza nome, freddo e pioggia incessante. Un veterano ricordò così quei mesi: “Eravamo lontani dal deserto e lontani dalla nostra terra. Non c’erano spazi aperti, solo boschi, nebbia e trincee. Era come se la montagna stessa combattesse contro di noi”.

La guerra d’attrito sugli Appennini (autunno 1944 – inverno 1945)

Con l’arrivo dell’autunno 1944, la 6th South African Armoured Division si trovò immersa nella fase più dura e logorante della campagna italiana: la guerra d’attrito sugli Appennini. Dopo la conquista di Firenze e la rapida avanzata estiva, le aspettative di una penetrazione veloce verso la Pianura Padana si infransero contro la barriera naturale delle montagne e contro l’ostinata resistenza tedesca.

L’offensiva di settembre. Nel settembre 1944 gli Alleati tentarono di sfondare la Linea Gotica con una vasta offensiva. Nel settore della Divisione sudafricana, l’obiettivo era aprire un varco lungo la Strada Statale 64 Porrettana, puntando su Vergato e quindi su Bologna. Le alture da conquistare avevano nomi che sarebbero diventati tristemente familiari: Monte Acuto, Monte Vigese, Monte Sole, Monte Caprara. Il 12 settembre, la 12ª Brigata motorizzata attaccò Monte Acuto. La salita, ripida e fangosa, fu resa impossibile dalle mitragliatrici tedesche piazzate tra i castagneti. Le compagnie del Natal Carbineers furono inchiodate al terreno, mentre i carri Sherman, incapaci di avanzare sulle mulattiere, venivano presi di mira dai cannoni da 75 e 88 mm. In tre giorni di combattimenti, le perdite furono gravi: 137 uomini tra morti e feriti, oltre a cinque carri distrutti. Contemporaneamente, la 24th Guards Brigade affrontava i contrafforti di Monte Vigese. Gli Scots Guards avanzarono tra le rocce sotto una pioggia torrenziale, che trasformava i pendii in colate di fango. Nonostante la tenacia, riuscirono solo a conquistare alcune posizioni secondarie: i tedeschi, trincerati in bunker in cemento, resistevano a ogni colpo.

La resistenza tedesca. Il settore sudafricano era difeso principalmente dalla 16. SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer-SS” e da reparti della 65. Infanterie-Division. Questi reparti, veterani e motivati, sfruttavano la conformazione del terreno: gallerie scavate nella roccia, postazioni ben camuffate, campi minati e barriere anticarro. Ogni tentativo di sfondamento veniva respinto con contrattacchi improvvisi, spesso notturni. Per i soldati sudafricani la sensazione era di combattere contro una montagna viva, che rispondeva a ogni colpo con una raffica di fuoco. Molti scrissero nei diari della frustrazione di “avanzare un metro al giorno”, con la consapevolezza che ogni cresta conquistata si apriva solo su un’altra più in alto, già fortificata.

La vita al fronte. L’autunno e l’inverno del 1944–45 furono un incubo per i sudafricani. Le condizioni climatiche sugli Appennini erano l’opposto del deserto che conoscevano: pioggia incessante, nebbia, gelo, neve. Le tende degli accampamenti crollavano sotto i temporali, le trincee si riempivano d’acqua, gli uomini vivevano in abiti fradici per settimane. Le malattie dilagavano: bronchiti, polmoniti, febbri reumatiche. Le razioni arrivavano spesso fredde e ridotte, perché i muli che trasportavano i rifornimenti lungo i sentieri cadevano o saltavano sulle mine. Gli ospedali da campo, allestiti nelle scuole e nelle chiese dei villaggi, erano sempre pieni. In queste condizioni, il morale era messo a dura prova. Molti soldati ricordarono la lontananza da casa come il peso più duro da sopportare: erano a migliaia di chilometri dal Sudafrica, e la guerra sembrava non finire mai. Un veterano scrisse: “Non combattevamo più per avanzare: combattevamo solo per sopravvivere fino al giorno dopo”.

Il rapporto con la popolazione. Nei villaggi appenninici, i sudafricani entrarono in contatto con civili stremati. A Castiglione dei Pepoli, a Ronchidoso, a San Benedetto Val di Sambro, la gente viveva tra macerie e rifugi scavati nella roccia. Molti bambini ricevettero pane, latte in polvere e cioccolato dalle razioni sudafricane, mentre gli anziani trovavano cure negli ospedali da campo. Non mancarono tensioni – requisizioni forzate, sospetti di saccheggi – ma nella memoria locale rimase soprattutto l’immagine dei soldati africani che, in mezzo a tanta sofferenza, offrivano una mano amica.

Un fronte immobile. Alla fine del 1944 la Divisione era esausta. Dopo tre mesi di combattimenti, gli Springboks non erano riusciti a sfondare. Il fronte si cristallizzò lungo un arco che passava per Monte Sole, Monte Caprara e Monte Castellari. Qui i sudafricani rimasero fino alla primavera del 1945, in una guerra di posizione che ricordava più le trincee della Prima guerra mondiale che le rapide manovre corazzate del deserto.

Le perdite accumulate furono gravissime: dal settembre al dicembre 1944 la Divisione perse oltre 1.200 uomini tra morti, feriti e dispersi. Il morale era minato, ma la disciplina reggeva, sorretta dalla consapevolezza di avere un ruolo cruciale: tenere la linea, impedire ai tedeschi di sfondare, e prepararsi al colpo finale che tutti sapevano sarebbe arrivato con la primavera.

L’offensiva di primavera e la fine della guerra

Dopo mesi di stasi e logoramento, la 6th South African Armoured Division ricevette, nella primavera del 1945, l’ordine che tutti attendevano: prepararsi alla grande offensiva finale. L’operazione, nome in codice Grapeshot, era destinata a spezzare definitivamente la Linea Gotica e a travolgere le difese tedesche in Italia settentrionale.

I preparativi. Nelle settimane precedenti l’attacco, la Divisione fu rinforzata con nuovi carri Sherman e rifornimenti accumulati a fatica attraverso i sentieri appenninici. Le brigate furono riequipaggiate e riportate a efficienza: l’11ª Brigata corazzata, la 12ª motorizzata e la 24th Guards Brigade. L’artiglieria sudafricana – i reggimenti di campo e i pezzi medi da 5,5 pollici – fu concentrata nelle valli, pronta a bombardare le creste occupate dai tedeschi. Il morale, nonostante le privazioni, era risalito. Gli uomini sapevano che quella sarebbe stata l’ultima offensiva, l’occasione per chiudere un anno di fango, neve e attese.

L’attacco alle alture: Monte Sole e Monte Caprara. L’offensiva iniziò il 15 aprile 1945. Il settore sudafricano aveva obiettivi chiari: conquistare le posizioni tedesche di Monte Sole e Monte Caprara, alture che dominavano la valle del Reno e che erano presidiate da reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer-SS”. L’attacco fu preceduto da un bombardamento devastante. Migliaia di colpi d’artiglieria piovvero sulle creste, seguiti da attacchi aerei della Desert Air Force. Quando la fanteria sudafricana mosse all’assalto, trovò bunker devastati e difese spezzate, ma anche nuclei di resistenza pronti a combattere fino all’ultimo. Il Cape Town Highlanders e il Natal Carbineers attaccarono Monte Sole, avanzando tra boschi incendiati e trincee piene di cadaveri. Ci vollero tre giorni di combattimenti per conquistare la cima. Contemporaneamente, il Pretoria Regiment e gli Scots Guards presero d’assalto Monte Caprara. Qui la resistenza fu più accanita, con contrattacchi tedeschi sostenuti da artiglieria e mortai. Solo il 19 aprile, dopo assalti continui e perdite pesanti, i sudafricani issarono la bandiera sull’altura. Le perdite furono elevate: 437 uomini tra morti e feriti in meno di cinque giorni. Ma il risultato fu decisivo: il fronte tedesco crollava.

La corsa verso Bologna. Con le difese spezzate, i corazzati sudafricani poterono finalmente fare ciò per cui erano stati creati: avanzare in campo aperto. Il 21 aprile 1945, mentre le truppe polacche della 2ª Armata entravano a Bologna da est, gli Springboks marciavano lungo la Statale 64, entrando da sud-ovest. La popolazione accolse i liberatori con bandiere, campane e canti, in una festa che ricordava Firenze pochi mesi prima. Era il trionfo di una Divisione che aveva resistito a un inverno terribile e che ora, con la potenza dei suoi Sherman e la tenacia della sua fanteria, apriva la strada verso la pianura.

Nella Pianura Padana. Dopo Bologna, l’avanzata fu rapidissima. La Divisione percorse quasi 300 chilometri in dieci giorni, liberando villaggi e città lungo la valle del Po. Attraversato il fiume, i sudafricani raggiunsero San Matteo della Decima e poi si spinsero verso nord, in direzione di Verona e Treviso. Il 1º maggio 1945, mentre in Europa la guerra volgeva al termine, gli Springboks entrarono a Milano insieme ad altre unità alleate. La popolazione li accolse come eroi sconosciuti, uomini venuti da un continente lontano per combattere in una terra che non era la loro.

Bilancio della vittoria. L’offensiva di primavera costò alla Divisione Sudafricana circa 1.200 perdite, ma segnò la vittoria finale. Dopo mesi di stallo, gli Springboks avevano riconquistato la mobilità, travolgendo un nemico ormai allo stremo. Quando, il 2 maggio 1945, le forze tedesche in Italia firmarono la resa, la 6th South African Armoured Division era in marcia lungo la pianura veneta. Aveva percorso l’Italia dal Salento fino alle Alpi, partecipando a tutte le grandi fasi della campagna. Il bilancio complessivo della Divisione fu pesante: più di 3.500 perdite tra morti, feriti e dispersi dall’aprile 1944 al maggio 1945. Ma la sua reputazione era ormai consolidata. La 6th era un’unità che, nonostante le difficoltà politiche e la lontananza da casa, aveva combattuto con disciplina e coraggio, guadagnandosi il rispetto degli Alleati e della popolazione italiana. I sudafricani in Italia sarebbero rimasti nella storia.

Occupazione e smobilitazione

Dopo la liberazione di Bologna e la rapida corsa nella Pianura Padana, la 6th South African Armoured Division non poté rientrare subito in patria. Le necessità strategiche alleate la trattennero ancora in Italia. Nei primi giorni di maggio 1945 le sue brigate furono incaricate di presidiare il Piemonte e la Liguria, garantendo ordine pubblico, disarmo dei reparti tedeschi in resa e vigilanza sugli snodi stradali e ferroviari. Reparti sudafricani furono dislocati a Torino, a Biella, a Vercelli e lungo la valle d’Aosta, altri a Genova e Savona, in un’Italia del Nord sconvolta dal crollo del regime e attraversata da tensioni tra partigiani e autorità alleate. In questa fase, per la prima volta dopo mesi di guerra, i soldati entrarono in contatto con una popolazione che non era più schiacciata dalla fame e dalla paura, ma ansiosa di tornare alla vita civile.

Il dopoguerra immediato non significò però la fine dei sacrifici per i soldati sudafricani. La smobilitazione fu lenta e complessa. Il sistema di trasporti navali alleati, sovraccarico per il rimpatrio delle truppe da tutta l’Europa, impose lunghi mesi di attesa. La Divisione rimase quindi a lungo in Italia, impiegata in compiti di polizia e presidio, mentre molti uomini già sognavano il ritorno alle loro fattorie, alle città e ai campi del Sudafrica.

Nel novembre 1945 la Divisione fu trasferita in Egitto, nel grande campo di Helwan, vicino al Cairo. Qui, invece della gioia del rimpatrio, esplose la frustrazione. Le promesse di un rapido ritorno non erano state mantenute, le condizioni di vita nel campo erano difficili, e la disciplina iniziò a vacillare. Nell’agosto 1945 si verificarono disordini noti come i “moti di Helwan”: migliaia di soldati sudafricani protestarono contro i ritardi, alcuni magazzini furono saccheggiati e gli ufficiali ebbero difficoltà a ristabilire l’ordine. Fu un episodio che segnò l’ultimo capitolo della 6th South African Armoured Division, una forza che aveva resistito con tenacia sui campi di battaglia italiani, ma che non seppe accettare la lunga attesa lontano da casa.

Lo scioglimento ufficiale della Divisione avvenne nel marzo 1946. Molti dei suoi uomini rientrarono in patria con ferite permanenti nel corpo e nell’animo, altri non fecero mai ritorno, lasciando tombe sparse nei cimiteri militari italiani.

Nonostante ciò, il contributo della 6th South African Armoured Division rimase fondamentale. Dal Salento all’Arno, dal Chianti all’Appennino, fino a Bologna e Milano, la Divisione aveva partecipato a tutte le fasi cruciali della campagna d’Italia. La memoria del suo sacrificio si conserva ancora oggi in Italia, soprattutto a Castiglione dei Pepoli, dove sorge un memoriale dedicato agli Springboks, simbolo del legame tra la popolazione appenninica e quei soldati venuti dall’emisfero australe.

Il ricordo degli Spirngboks sull’Appennino

A Castiglione dei Pepoli, tra i boschi e i crinali che furono teatro di mesi di logoramento, la memoria dei soldati sudafricani è custodita con discrezione. Qui, accanto al cimitero comunale, sorge il South African War Cemetery, uno dei luoghi della memoria dell’Appennino bolognese. Centosessantacinque croci bianche, disposte in file ordinate, ricordano i caduti della 6th South African Armoured Division. I nomi incisi sulle lapidi raccontano origini diverse: Pretoria, Johannesburg, Durban, ma anche Rhodesia, Namibia, perfino comunità indiane e coloured del Sudafrica, segno di una partecipazione che superava i confini e le divisioni interne del Paese.

Ogni anno, ancora oggi, piccoli gruppi di sudafricani tornano a Castiglione, a rendere omaggio ai loro padri e ai loro nonni.

Accanto al cimitero, il Museo dei Sudafricani, realizzato con l’impegno congiunto delle autorità sudafricane e locali, raccoglie documenti, fotografie, uniformi e oggetti personali della Divisione. Non solo cimeli militari. Ma pure lettere inviate a casa, fotografie scattate nei villaggi toscani e i diari di guerra offrono uno sguardo intimo, domestico, sulla vita quotidiana degli Springboks. È il racconto di un’umanità spezzata dalla guerra, capace di lasciare tracce di solidarietà nei rapporti con i civili incontrati lungo la strada.

Gli italiani sono grati per sempre ai sudafricani che in Italia hanno sofferto e sono morti per la libertà.

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